Retrobottega 2010 – 10 sillogi inedite
A cura di Vincenzo Lisciani Petrini e Gianmario Lucini
Edizioni CFR – Poiein, Sondrio
pp. 152
«Non è nostra intenzione proporre l’ennesima antologia di poeti emergenti, ma piuttosto quella di proporre poeti poco conosciuti, che neppure cercano di “emergere” da qualcosa, ma che cercano nella poesia il loro linguaggio e ad essa affidano una loro verità».
Consapevoli della bulimia editoriale in ambito poetico e della componente di parzialità insita in ogni operazione antologica, i due curatori si sono serviti di parole chiare e concise per presentare questo progetto: nessun criterio a maglie strette, vuoi tematiche, stilistiche o anagrafiche, ma piuttosto la condivisione di uno “spirito” comune, il vivere intensamente la propria scrittura.
L’intento non è rappresentare tendenze o fornire panorami, ma più onestamente offrire ai lettori, di anno in anno, quanto di meglio e poco noto si è incontrato nella propria attività editoriale e di “talent scouting” (coi premi per inediti “Turoldo” e “Fortini” per esempio).
Ciascuno dei dieci poeti è ospitato con una silloge (in media 15-20 poesie) e una introduzione critica, un po’ come avviene per i Quaderni Italiani curati da Franco Buffoni: a differenza di molte opere compilative e un po’ affastellate, è possibile farsi un’idea più unitaria dei singoli autori.
Apre l’antologia Claudia Ambrosini, che – come nota Alfredo Panetta – fa uso di un linguaggio essenziale, antinarrativo, forse influenzato dalla cultura cinese di cui è esperta cultrice: «Decisi un agosto / lo sguardo di madre // Ma libri e tempeste / hanno i propri tempi / come il bimbo sano / che mette i denti». I versi sono perlopiù brevi, scanditi dall’assenza di enjambements e resi ancora più leggeri da rime e assonanze non invasive, con immagini in primo piano e stilizzate: campi, papaveri, gigli, altri alberi ed elementi naturali che tendono a un’agognata leggerezza (che dà anche titolo a una poesia) ma pure rischiano, a volte, un lirismo risaputo.
Nei versi del giovanissimo Francesco Barbaro (classe 1990) c’è l’urgenza e l’ambizione di parlare della nostra condizione, sia pure con un tono talora solenne e profetico («non ti spaventare dei Frammenti / sono soltanto frammenti, / un tempo erano l’Uomo») che potrà smussarsi e affinarsi con gli anni: più che nel poemetto Jihad, da cui sono tratti i versi citati, il meglio va cercato in «Alice e i tesserati», dall’incipit diretto ed efficace («Facciamo iniziare il racconto / dai gessetti bianchi della bambina»), o in «Rottami», con la compresenza di piani lunghi e primi piani («Scendi / danzando sulle foreste di antenne un walzer di cemento / vieni / per vedere gli sfasci con occhi intensi, / le dita inquiete insinuatesi fra il filo / spinato e le ombre fasulle»).
Lirica, ma sofferta e affondata nel presente, è la poesia di Nunzia Binetti: la sua silloge In ampia solitudine è percorsa da tremori, slanci, ripiegamenti, definitive constatazioni. Ogni testo è un organismo in sé compiuto, e organiche – benché spesso in disfacimento – sono le immagini che vi ricorrono: «una secca di rami», «un frutto disfatto», un «giunco nel canneto»: correlativi oggettivi della poetessa, che riassumono una condizione di dolore ed estraneità che non si fa mai pietosa, ma viene invece accettata con stoicismo, rivendicando, semmai, la propria irriducibile peculiarità. E peculiare è anche lo stile, con versi di raffinata fattura, spesso spezzati da drammatici enjambements, solcati da sinestesie ardite, termini scientifici e aperture al colloquiale, come in «Ultima ipotesi»: «Non voglio quel lampione di vetri opachi / a darmi luce / se ho già di te pallidi ricordi illuni, per lanterne. / Acufèni eccelsi / inganni / di quattro schizzi di gioia prestati al cuore».
Vanjo Garbujo scrive testi di carattere religioso (è stato ordinato prete nel 2005) dove la forte tensione verso Dio si esplica nei frequenti vocativi. Tuttavia mi sembra il più fragile tra gli autori dell’antologia, per l’affollarsi di prosopopee, le immagini non filtrate ma assunte passivamente, a volte di evidente acerbità («Gli occhi miei si insidiano / nella notte / fra nuvole di vite / e stelle di parole»). Meglio quando fa emergere una sensibilità attenta alle cose minute, che ricorda un po’ gli haiku o i tanka giapponesi: «Ancora galleggiano / sulla soglia dell’acqua // foglie dorate e rami d’ambra // in attesa che il sole / le possa incontrare».
Anche curatore del volume, il giovane Vincenzo Lisciani Petrini ha buone capacità espressive, poste al servizio di soluzioni formali varie: ci sono poesie divise in strofe e dal verso breve, poesie narrative dal verso lungo, a volte franto da spazi bianchi leggibili a mo’ di spartiti (la musica fa parte della formazione dell’autore). In queste ultime trovo un gusto quasi barocco di accumulo metaforico e aggettivale, di chiasmi, una raffinatezza che offre passaggi densi ed efficaci («A metrature, a cardi e decumani / si compongono nuove linee / e ci si adatta a tutto, purché si dimentichi / il colore della polvere») ma anche una voce poco empatica, giudicante, come sul palco; il rischio di enfasi letteraria è in agguato anche nelle poesie più intimistiche, come «Domine», «Madre» o «Giovinezza».
La bella introduzione alla silloge di Nunzio Festa ne sottolinea, opportunamente, il carattere civile e sociale. Partendo dalla constatazione della propria marginalità geografica (la Basilicata), Nunzio affronta temi di portata più ampia: il provincialismo, la corruzione, il futuro incerto. Un’amara ironia innerva queste poesie, divise in strofette, senza interpunzione e con un ritmo serrato, dato da vivaci catene di rime e versi di lunghezza varia. Ne segue che le raffigurazioni sono destrutturate in una centrifuga di sostantivi, tenuti insieme da una sorta di “affabulazione scorciata”: «bianco andare verso / il principio d’ogni cosa / l’ospedale // la regione / di palazzi con uffici stanchi» e, poco oltre, «battendo il televisore / con l’ombrello e il berretto / il filo diretto / certo tra gli anni giovani / e questo giorno».
Come Claudia Ambrosini, anche Alberto Mondi ha a lungo viaggiato e vissuto in Asia, e Asia è il titolo della sua silloge: tuttavia, in Alberto prevale la cronaca del proprio incontro/scontro con una civiltà diversa. Lo stile è semplice, onesto, con strofe spesso rimate, ma una consapevolezza ancora parziale dei propri mezzi espressivi. Numerose le occasioni descrittive, che in genere andrebbero maggiormente personalizzate, come riesce a fare in questo passaggio: «un’anziana seduta da secoli tra le sue verdure / conta banconote / che da quando è aumentato il cemento / diminuiscono come gli anni che le restano».
Leggendo i testi di Virginia Murru, «il lettore ha la sensazione di un dolore che non vuole farsi consolare, di una ferita che non cessa di sanguinare» (dall’introduzione alla silloge). E l’impressione infatti è quella di un’esistenza-resistenza eroica e solitaria, con un senso astorico del tragico e della grandezza che – se anche rischia talvolta accumuli metaforici ed eccessi d’enfasi – porta a una visceralità altera, poco praticata oggi, ma di intensa efficacia: «Io non esco da questa catalessi / non muovo un passo - / ascolto questo andirivieni di stelle / e il pensiero diventa sempre più piccolo / basso in sottosuolo - radente il nulla». È come se l’isolamento orgoglioso, la bellezza selvaggia e inospitale della sua Sardegna si fossero incastonati nei suoi versi, da rileggere più volte.
Senso della misura e volontà comunicativa sono due buoni punti di partenza della silloge Segni del giovane Fabio Rocci. La sua sensibilità spinge all’immagine forte, tagliente, quasi un correlativo oggettivo o un segno, appunto: come le proprie ferite scoperte «così nascoste / così fresche», la padella graffiata, la muffa e le macchie, i vetri sporchi, le lesioni al fegato, la pellicola bruciata, le formiche che «lacerano la carne» e sono «ricacciate e soffocate nell’esofago». Non ci sono punte memorabili e poche sono le cadute evidenti, eppure lo sguardo poetico è genuino e partecipato: «La immagino sola nella sua stanza / spogliarsi delle sue bende griffate / che la tenevano in vita. // Ora si sgretola, / il sorriso si perde / l’anello rotola via».
Infine Anna Ruotolo, classe ’85, autrice che ha già ottenuto importanti riconoscimenti e pubblicato su riviste prestigiose (tra cui il mensile «Poesia»), per poi esordire con una propria raccolta nel 2009. La sua silloge, Maldamerica, si presenta come il resoconto di un viaggio, della sperimentazione dell’alterità ma alla ricerca di complicità e complementarità, più che di scontro; una sorta di diario lirico, sapientemente in bilico tra esperienza diretta e sua mitizzazione, con il frequente uso del “noi” corale e dell’imperfetto. Il tono colloquiale, la naturalezza della voce, la personificazione dell’inanimato come uso accorto della metafora, ne fanno una poetessa già matura, ai cui bei versi affido volentieri anche la conclusione di questo scritto: «Ma tu devi sapere che il porto ci aspettava paziente / scendeva dal buio / esercitava una calma come certe calme divine / o il ritardo previsto dai cumuli di rocce e dalle stelle».
Davide Castiglione