di Ugo Foscolo
Einaudi, 2005
179 pp., 9 €
Da bravo malpensante, Gesualdo Bufalino scrisse a proposito dell’illustre precedente dell’Ortis: «Quel colpo di pistola ci ha risparmiato, quanto meno, i dolori del vecchio Werther». E in effetti sembra davvero impossibile immaginare l’Ortis e il Werther, gemelli eterozigoti, come due uomini di mezza età soffocati nella loro finanziera, appesantiti dai compromessi della vita. Così come stride, nella fantasia dei lettori, l’immagine di un Foscolo quarantanovenne bastonato e coperto di debiti, sepolto infine in un cimiterucolo britannico. Questo per una semplice ragione: Jacopo Ortis – e l’autoritratto che attraverso Jacopo Ortis Foscolo ha consegnato ai posteri – possiede come attributo quasi ontologico la giovinezza.
Le ultime lettere di Jacopo Ortis sono, contemporaneamente, eredi e progenitrici. Dal punto di vista letterario: raccolgono sul suolo italiano la fiaccola di un nuovo genere tutto borghese, il romanzo epistolare, che conta già esemplari capolavori in Inghilterra (Richardson), Francia (Rousseau, de Laclos) e Germania (Goethe); coniano immagini che confluiranno in tanta tradizione. La giovane Teresa, per esempio, è la prima rappresentante della sfortunata, ma letterariamente fortunatissima, stirpe delle fanciulle borghesi in età da marito. Ma ancora: tramite l’Ortis, Foscolo reinterpreta tutta una tradizione letteraria italiana, regalando ai suoi futuri, giovanissimi lettori un materiale altamente infiammabile con cui alimentare i loro sogni.
Jacopo Ortis è l’eroe intellettuale per eccellenza. Il suo furore – spirituale ma non «astratto» come quello di cui avrebbe sofferto un secolo dopo il Silvestro di Conversazione in Sicilia – non può realizzarsi in atto politico. Non può lottare contro la tirannide neanche il più degno figlio del mito alfieriano, se la cifra del mondo è la devastazione. Così l’indimenticabile incipit:
Il sacrificio della patria nostra è consumato: tutto è perduto; e la vita, seppure ne verrà concessa, non ci resterà che per piangere le nostre sciagure, e la nostra infamia.Jacopo vive in un tempo post-apocalittico: il trattato di Campoformio (in cui, vale la pena di ricordarlo, Napoleone cedette la repubblica di Venezia agli austriaci: 17 ottobre 1797) ha cancellato la plurisecolare indipendenza veneziana ma, soprattutto, le illusioni libertarie che Napoleone aveva esportato dalla Francia rivoluzionaria, facendosene l’invitto campione. La libertà aveva invaso l’Europa, per essere presto ridotta a spettro di se stessa. Tutta l’opera di Foscolo può essere dunque considerata un culto funerario delle illusioni: la cura del bello, l’interiorizzazione della tradizione letteraria, l’ultimo tributo ideale di Jacopo sono atti di pietas verso un corpo morto. Nelle Lettere, Jacopo realizza il suo furore in tre atti tragici: un amore impossibile eletto come sacro «canto del cigno»; la riesumazione, tra le macerie distrutte del mondo senza illusioni, di una schiera di padri da riconoscere e pregare; infine, il suicidio, prospettiva senza via d’uscita sin dalla prima lettera.
La letteratura del Novecento, sulla scorta di un arci-edipico freudismo, ha insistito ossessivamente sul tema dell’uccisione dei padri. Tanto diversa appare l’azione letteraria di Foscolo. Egli stesso vorrà farsi padre, consegnando ai posteri un vangelo laico quale può essere considerato il carme Dei sepolcri; ma questo non senza essersi fatto egli stesso un figlio, nell’Ortis. Qui, Jacopo ricostruirà un vero pellegrinaggio, una recherce des pères perdus all’insegna della letteratura (a cui si riallaccerà Francesco De Sanctis nella sua Storia della letteratura italiana). Il viaggio fisico e intellettuale di Jacopo parte da Arquà, dall’ultima dimora di Francesco Petrarca: il tributo è al grande poeta d’amore, ma il protagonista non può non notare che la casa è in rovina, e la colpa è dell’oblio delle istituzioni. Segue la mitica Santa Croce, eternata come sacrario della patria nei Sepolcri. Ma gli incontri fondamentali sono due: quello col Parini, e con la tomba di Dante a Ravenna. Foscolo avrà il merito (civile) e la colpa (critico-filologica) di consegnare ai posteri un’immagine romantica di questi due poeti. Il Parini e il Dante foscoliani sono già figure letterarie, padri ideali eletti al Pantheon laico di un’Italia possibile.
Ma il pellegrinaggio di Jacopo non potrebbe svolgersi senza un altro libro, che non è la Commedia di Dante né le Odi pariniane. Il Foscolo, sacerdote della patria e suo futuro evangelista, dà anche a Jacopo un suo vangelo: le Vite parallele di Plutarco. È il libro che il protagonista porta sempre sottobraccio; e che, dopo il suicidio, regalerà al suo amico e destinatario, Lorenzo Alderani. Anche la lettura delle Vite plutarchiane è romantica fino al midollo: esse offrono un modello di eroismo e di sacrificio. Il suicidio di Jacopo è tanto diverso da quello di Werther – non soltanto per l’arma: pugnale del primo contro pistola del secondo – proprio perché si fonda non su un conflitto sociale, ma su un conflitto politico ricondotto a solidissime basi classiche. Rese ancora più solide, se è possibile, da un'innovazione semantica; come ha mirabilmente osservato Edoardo Sanguineti, l’Ortis è il primo a parlare dell’amore e della patria negli stessi termini: tratti dalla sfera del sacro.
Così la patria diventa religione, e la morte scritta ultimo esercizio liturgico. Jacopo l’eroe muore di un suicidio annunciato, programmato ma fino all’ultimo infuocato da inoppugnabile dignità. Una morte annunciata e necessaria: impossibile essere «belli di fama e di sventura» senza essere giovani. La morte è parte integrante della retorica dell’eroismo: il mito sopravvissuto a se stesso – ce lo insegna il caso di Garibaldi – diventa un terreno problematico. L’Ortis, invece, consegna al popolo italiano l’immagine pura e incorruttibile di un eroe: tra i suoi lettori ci saranno adolescenti come Leopardi, che si approprieranno del culto della patria (del suo Pantheon laico) e lo tradurranno nei loro personalissimi universi letterari.
Bufalino aveva ragione: un colpo di pistola ci ha risparmiato i dolori del vecchio Werther; ma una lama di pugnale, invece, ha creato un mito capace di educare un’intera generazione, quella risorgimentale. E forse più d’una.
L. Ingallinella