di Jacqueline Risset
Hermann, 2009
€ 22
Il libro di Jacqueline Risset è un saggio di critica letteraria denso e ricco di stimolanti indicazioni interpretative. Nel caso specifico, e trattandosi di un genere letterario spesso non rispettato in se stesso, la scrittura dell’autrice ha la non comune qualità di tenersi lontana sia dagli inutili e offuscanti ghirigori stilistici, sia dalle posture e dal gergo accademico, e offre un’interpretazione dell’opera proustiana – la Recherche ovviamente, ma anche tutto ciò che l’ha preceduta e poi accompagnata – a partire da un punto di vista ben definito (quella del punto di vista parziale e preliminarmente definito è quasi una scelta obbligata quando si tratta di Proust e della sua opera, tale è l’ampiezza enciclopedica di temi e riflessioni che è in grado di suggerire). J. Risset esplora la scrittura proustiana soffermandosi su quelle zone dove la stessa privilegia ciò che la studiosa definisce l’à côté, ovvero il contorno, la mescidazione degli elementi, il loro intersecarsi e invadersi l’un l’altro.
“Proust non può essere racchiuso in temi specifici, psicologia o altri (memoria, gelosia, ecc.), egli frequenta e inquieta i bordi dell’esperienza. L’à côté, il desiderio, il male, il luogo, il sogno, il sonno, non sono temi romaneschi, ma armi per conoscere e scrutare ciò che lui chiama «una gioia strana»”:
(qui e di seguito traduco io come meglio posso) questo è il capoverso finale del saggio che ne sintetizza brillantemente il tracciato interpretativo.
Il saggio riporta al centro della speculazione proustiana quella “strana gioia” che è il fulcro irradiante del romanzo, il quale non può essere sussunto sotto nessun tema dominante o addirittura unificante, e non può essere interpretato da nessun punto di vista totalizzante, perché sfugge e deborda da ogni lato, ma che ha in quella “gioia”, in quella esperienza ultraterrena ed extratemporale, la sua ragione d’essere. È da lì che Proust percorre e scruta il mondo circostante, le ragioni della società, dei sentimenti, dell’arte: si tratta di attraversare, decifrare, vivere il mondo per tornare a quella gioia, ripeterla, prolungarla, spiegarla e comunicarla.
Prima di soffermarmi su alcuni dei punti forza del saggio di J. Risset, tra i quali sono da annoverare anche alcuni opportuni richiami danteschi, segnalo l’unico punto sul quale mi trovo in forte disaccordo con l’autrice, ovvero la valutazione in chiave modernista, se non addirittura avanguardista, delle note del Carnet 1908 (pubblicato nel 1976 da Philippe Kolb, contiene le prime idee, i primi abbozzi, gli appunti preparatori di quello che sarà il romanzo). Quasi che quelle note fossero da preferire alla loro trasformazione in opera compiuta, rivestita dalla “vernice dei grandi maestri”. Se è vero che, come suggerisce Kolb, il Carnet 1908 è “la prova dell’esistenza d’una intuizione globale dell’opera a venire”, non mi pare condivisibile l’idea di trasformare il documento, il carnet, appunto, in un testo, perché sottostimare il passaggio dall’uno all’altro, ovvero l’immenso lavoro di scrittura che li separa, significa trascurare la strenua volontà comunicativa che sorregge la poetica proustiana. E quel documento non può essere inteso come un avanguardistico “attacco alla lingua”: proprio la lettera a M.me Strauss, (che Critica letteraria ha pubblicato nella rubrica Pillole d’autore) dove lo scrittore usa quest’espressione, chiarisce lucidamente che egli vorrebbe attaccarla non per distruggerla, ma per difenderla, disincrostarla da ciò che ne offusca la trasparenza.
Dunque, il punto di vista di Jacqueline Risset privilegia il sogno, il sonno, il desiderio, il male, il luogo, ovvero tutti quegli elementi traversando i quali Proust giunge alla “certaine joie” della creazione letteraria. Ed è nella contiguità (e nel suo omologo retorico, la metonimia) che questi elementi del testo trovano la loro espressione più aderente. La contiguità ha, secondo l’autrice, il ruolo fondante nella Recherche di scardinare le gerarchizzazioni imposte dalla cultura, dall’intelligenza e dalla ricerca volontaria alle percezioni immediate e infantili; dalla metonimia (di cui la celebre descrizione dell’immaginaria Marina di Carquethuit offre una dettagliata descrizione degli effetti estetici) scaturisce la “visione” alternativa e il ribaltamento radicale dei valori artistici stabiliti dal possesso per via della comprensione intelligente, della volontà e della cultura. Ad essi Proust sostituisce la forza del desiderio e lo stupore della visione “primigenia”. Così il grande lavoro sulla metafora ordito consapevolmente dalla Recherche – “il piano della teoria artistica, piano idealista, unitario, è poco a poco roso, intaccato” dalla metonimia, che è “l’impurità stessa, il contingente, il non scelto”. Insomma, Risset conferma e meglio approfondisce che il pensiero proustiano e il suo concreto agire letterario seguono costantemente un movimento che è almeno bidirezionale, se non pluridirezionale, esattamente come la sua visione delle cose è panottica: da un lato anela all’essere, all’essenza delle cose, dall’altro ne esplora il carattere relazionale e la “nuova cosa” che nasce dal loro stare vicine, secondo un atteggiamento speculativo molto vicino a quella che, qualche decennio dopo, sarà proprio della fenomenologia filosofica di Merleau-Ponty, in particolare. Rispetto all’idealismo platonico, cui spesso, per Proust, si è fatto riferimento, e alla determinazione dell’Uno, la Recherche, così come già suggerito da Gilles Deleuze, non tace ciò che lo smentisce e lo supera. Così, anche l’amore, in quanto desiderio, è al contempo profanazione. E nell’immagine evocata da J. Risset la donna racchiude in sé la Beatrice dantesca (la salvezza) e la Justine sadiana (la perdizione), immagini che non soltanto si giustappongono, ma si sovrappongono, si invadano l’un l’altra.
Il saggio riporta al centro della speculazione proustiana quella “strana gioia” che è il fulcro irradiante del romanzo, il quale non può essere sussunto sotto nessun tema dominante o addirittura unificante, e non può essere interpretato da nessun punto di vista totalizzante, perché sfugge e deborda da ogni lato, ma che ha in quella “gioia”, in quella esperienza ultraterrena ed extratemporale, la sua ragione d’essere. È da lì che Proust percorre e scruta il mondo circostante, le ragioni della società, dei sentimenti, dell’arte: si tratta di attraversare, decifrare, vivere il mondo per tornare a quella gioia, ripeterla, prolungarla, spiegarla e comunicarla.
Prima di soffermarmi su alcuni dei punti forza del saggio di J. Risset, tra i quali sono da annoverare anche alcuni opportuni richiami danteschi, segnalo l’unico punto sul quale mi trovo in forte disaccordo con l’autrice, ovvero la valutazione in chiave modernista, se non addirittura avanguardista, delle note del Carnet 1908 (pubblicato nel 1976 da Philippe Kolb, contiene le prime idee, i primi abbozzi, gli appunti preparatori di quello che sarà il romanzo). Quasi che quelle note fossero da preferire alla loro trasformazione in opera compiuta, rivestita dalla “vernice dei grandi maestri”. Se è vero che, come suggerisce Kolb, il Carnet 1908 è “la prova dell’esistenza d’una intuizione globale dell’opera a venire”, non mi pare condivisibile l’idea di trasformare il documento, il carnet, appunto, in un testo, perché sottostimare il passaggio dall’uno all’altro, ovvero l’immenso lavoro di scrittura che li separa, significa trascurare la strenua volontà comunicativa che sorregge la poetica proustiana. E quel documento non può essere inteso come un avanguardistico “attacco alla lingua”: proprio la lettera a M.me Strauss, (che Critica letteraria ha pubblicato nella rubrica Pillole d’autore) dove lo scrittore usa quest’espressione, chiarisce lucidamente che egli vorrebbe attaccarla non per distruggerla, ma per difenderla, disincrostarla da ciò che ne offusca la trasparenza.
Dunque, il punto di vista di Jacqueline Risset privilegia il sogno, il sonno, il desiderio, il male, il luogo, ovvero tutti quegli elementi traversando i quali Proust giunge alla “certaine joie” della creazione letteraria. Ed è nella contiguità (e nel suo omologo retorico, la metonimia) che questi elementi del testo trovano la loro espressione più aderente. La contiguità ha, secondo l’autrice, il ruolo fondante nella Recherche di scardinare le gerarchizzazioni imposte dalla cultura, dall’intelligenza e dalla ricerca volontaria alle percezioni immediate e infantili; dalla metonimia (di cui la celebre descrizione dell’immaginaria Marina di Carquethuit offre una dettagliata descrizione degli effetti estetici) scaturisce la “visione” alternativa e il ribaltamento radicale dei valori artistici stabiliti dal possesso per via della comprensione intelligente, della volontà e della cultura. Ad essi Proust sostituisce la forza del desiderio e lo stupore della visione “primigenia”. Così il grande lavoro sulla metafora ordito consapevolmente dalla Recherche – “il piano della teoria artistica, piano idealista, unitario, è poco a poco roso, intaccato” dalla metonimia, che è “l’impurità stessa, il contingente, il non scelto”. Insomma, Risset conferma e meglio approfondisce che il pensiero proustiano e il suo concreto agire letterario seguono costantemente un movimento che è almeno bidirezionale, se non pluridirezionale, esattamente come la sua visione delle cose è panottica: da un lato anela all’essere, all’essenza delle cose, dall’altro ne esplora il carattere relazionale e la “nuova cosa” che nasce dal loro stare vicine, secondo un atteggiamento speculativo molto vicino a quella che, qualche decennio dopo, sarà proprio della fenomenologia filosofica di Merleau-Ponty, in particolare. Rispetto all’idealismo platonico, cui spesso, per Proust, si è fatto riferimento, e alla determinazione dell’Uno, la Recherche, così come già suggerito da Gilles Deleuze, non tace ciò che lo smentisce e lo supera. Così, anche l’amore, in quanto desiderio, è al contempo profanazione. E nell’immagine evocata da J. Risset la donna racchiude in sé la Beatrice dantesca (la salvezza) e la Justine sadiana (la perdizione), immagini che non soltanto si giustappongono, ma si sovrappongono, si invadano l’un l’altra.
“Leggere Proust a partire dalla chiave metonimica significa concepire che percepire la contiguità equivale a perdere il senso, rinunciare all’organizzazione che permette al senso di «prendere».”
È questa predisposizione a sfuggire alla infrangibilità del senso che guida Proust nell’esplorazione dei bordi, dell’à côté.
“In Proust è proprio questa sovranità infantile, pratica perversa polimorfa di contaminazione e di degerarchizzazione, che lentamente si afferma come capace d’una indipendenza radicale e come ricerca libera della Verità”.
Paolo Mantioni
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