La gente di Edoardo Nesi

Storia della mia gente. La rabbia e l'amore della mia vita da industriale di provincia
di Edoardo Nesi
Bompiani, Milano 2011

1^ ed.: 2010

pp.
€ 14.00


Chissà se c'è mai stato un momento, un'ora, un giorno in cui si è raggiunto l'apice delle nostre vite economiche e, da lì in poi, i nostri sogni sono diventati chimere, i nostri successi privilegi, il nostro futuro una quantità immaginaria. Chissà se è possibile puntare il dito e indicare una data da ricordare e raccontare ai nostri figli e alle nostre figlie come il giorno in cui tutto ciò che era sempre andato bene ha cominciato ad andar male.
Si può provare, però.
(p.130) 
Sapevo che prima o poi avrei ceduto anch'io al Premio Strega di quest'anno. Una giornata grigia di agosto, un lungo viaggio in treno, da sola, e un'attesa generosa alla stazione di Lambrate sono stati complici e contesto. Così ho iniziato questo «libro dolente», la «disperata battaglia che [...] parrà di retroguardia» che ha impegnato Edoardo Nesi con un'opera dalla difficile collocazione di genere. Innegabile è la matrice autobiografica da cui muove, ovvero l'esperienza di imprenditore nell'azienda tessile familiare, a Prato, percorso terminato con la vendita della stessa. Fallimento economico, ma non esperienza di vita fallimentare: Edoardo, che fin da subito rivendica lo stretto legame tra la sua professione d'imprenditore e la vocazione di scrittore, porta sulla scena letteraria (e soprattutto sociale!) un tema a lungo passato in silenzio. Si tratta della decadenza e della progressiva chiusura delle piccole e medie imprese tessili del pratese, zona da sempre nota per i suoi tessuti e per l'industria di matrice familiare: la crisi economica è séguito della globalizzazione feroce (o «crudele», come più volte è ribadito), con la diffusione sul territorio di prodotti cinesi a bassissimo prezzo. Parte della responsabilità dei pratesi è l'approccio poco innovativo all'imprenditoria, «come se fosse un diritto acquisito e intoccabile, che ci illudevamo di poter vendere nel terzo millennio gli stessi tessuti», con i soliti telai, colori, rifiniture, clienti, mercati,...
Accanto alla storia personale della ditta di famiglia, vi è però la storia della sua gente, ovvero Nesi abbraccia non solo gli altri industriali pratesi, ma nell'opera via via s'apre agli altri produttori tessili italiani e poi, più in generale, a tutta la generazione che «andrà a star peggio di quella dei nostri genitori», dopo l'illusione di opulenza dell'adolescenza e della prima età adulta.

Così, dunque, la vena narrativa si unisce al preponderante e concitato respiro saggistico dell'opera. Componenti indistricabili e reciprocamente alimentanti: Nesi non scrive un saggio che si regge su teorie economiche o storie accadute ad altri, distanzianti; il saggista con la proliferazione dell'io-narrante (a tratti un po' disordinato e divagante, ora ammiccante) continua a tenersi stretto il vecchio strumento dell'autobiografia, quale professione sottilmente implicita di sincerità e di (reale o presunta) "verità". Eccone un esempio, tratto dalle pagine finali del libro:
aspro scrivere della vita vera invece di inventarsi storie; quanto possa scavare lentamente dentro di te e sgretolarti come l'acqua fa col cemento e con la pietra; quanto sia disperatamente vero che un romanzo può essere molto più d'un libro e diventare così reale da tormentarti ogni giorno, i tuoi personaggi trasfigurarti in carne e sangue e facce e corpi e voci e bandiere infinite, e finisci per diventare ostaggio di fantasmi che non ti lasceranno mai perché sono tuoi.
(p. 158)
E questo "io-saggista" (permettetemi l'accostamento un po' inusuale) abbatte con la sua apparente contraddittorietà uno degli assunti teorici delle grammatiche italiane, che nella loro declinazione più rigida vorrebbero il saggio come scrittura puramente impersonale. Più saggio o più romanzo? Difficile decidere. Forse sapiente saggio per arrivare al pubblico dei lettori di romanzi? Senza dubbio, si tratta di un'operazione coraggiosa, che fa discutere sui giornali: lo scorso anno, lo Strega è andato a Pennacchi, quest'anno a Nesi, per due romanzi che hanno riportato l'attenzione su realtà storico-sociali. Ma, come Vassalli ha scritto sul «Corriere della Sera» lo scorso 25 luglio, Nesi e Pennacchi non meritano la retorica dei "calli", ovvero 
mi ha dato un po’ fastidio il tentativo, che c’è stato, di fare di questi due scrittori una sorta, di prolungamento del «caso Saviano». Mi ha dato fastidio il riproporsi di un’illusione che sembrava tramontata negli anni Settanta, con gli scrittori-operai e i «franchi narratori»: quella di una letteratura ruspante, che nasce dalle cose e non ha rapporti con la cultura. «Nesi nasce in fabbrica e non nei caffè letterari» (Flavia Perina). «La mia letteratura, con i calli sulle mani» (Antonio Pennacchi). Mah. La letteratura, con o senza caffè letterari e senza calli, nasce e vive (se vive o finché vive) nei testi. Che altro c’è da dire?
 E se non si può discutere che Storia della mia gente sia uno «di quei cazzotti che ogni tanto la letteratura sferra al mondo» (per dirla con Sandro Veronesi), tuttavia è molto difficile trovare nella prosa quel «sublime canto, sia epico che lirico, dell'industriale e del lavoro umano» che vi ha rinvenuto Antonio Pennacchi. Citazioni letterarie, voli pindarici per libri letti, musica e cinema danno prova di eclettismo, non di lirismo, o tuttalpiù attestano ancora una volta la facoltà dell'io-saggista di "dire la propria", anche esulando dal contesto più stretto. E le vicende più toccanti sono così funzionali a testimoniare le teorie espresse, che è difficile crogiolarsi nella commozione, quando l'argomentazione riprende serrata subito dopo. E i buoni contenuti in questo caso si svincolano e vincono sul grado di sorvegliatezza della prosa. Si parli di un ritrovato gusto per il realismo, semmai, ma non di lirismo. Per favore. 

Gloria M. Ghioni