"Filosofia di Berlusconi- L'essere e il nulla nell'Italia del Cavaliere"
a cura di Carlo Chiurco
Ombre corte , 2011
pp.
206
La filosofia, diceva Hegel, è come la nottola di Minerva che “spicca il volo sul far della sera”, ossia prende la parola quando gli eventi sono compiuti e si avviano verso il declino.
Sebbene sembri che il declino del berlusconismo sia paragonabile a quelle situazioni che chiamiamo emergenze ma che in realtà sono ormai disagi permanenti, un intero ventennio è passato e non è poco per cercare di analizzare ciò che appare incomprensibile.
Foucault definirebbe gli autori del testo curato da Carlo Chiurco intellettuali specifici, capaci di pensare il presente, compiendo lo sforzo di proporre un’altra visione dei fatti e soprattutto lo sforzo di non cedere alla stanchezza causata dalla ripetitività estenuante nel trattare l’argomento amplificata anzi dovuta ai media.
Non sono mancate in questi anni analisi di tipo sociologico, politologico ma spiega Chiurco “sentivamo di dover colmare l’esigenza di compiere un’analisi che fosse finalmente filosofica, dopo decenni di colpevole silenzio da parte degli intellettuali italiani […] La filosofia ci è sembrata , a differenza di tutte le altre prospettive, l’unica in grado di non farsi irretire nel disegno totalizzante del berlusconismo, finendo così per fare il suo gioco […] e senza esserne banalmente la mera negazione, ma metabolizzandone i presupposti nell’atto stesso del comprenderli” .
La trascuratezza di questi anni dipende forse dal fatto che sin dall’inizio il berlusconismo non era avvertito come un problema, un pericolo, circondato com’era da un’aura paesana, bonaria, una temporanea presa di potere da parte del cittadino medio o meglio mediocre (evento considerato quasi come un effetto collaterale della democrazia), colpito dalla malattia italiana ormai ereditaria dell’assenza del senso dello Stato, dall’atavico familismo. Negli anni invece è diventato un modo di fare politica, un metodo di governo, non più la patologia personale di quell’uomo che al fenomeno dà il nome, ma “patologia sociale che rischia di sopravvivere al Cavaliere”, qualcosa che va ben oltre i risultati elettorali.
Gli autori non abbandonano il tentativo di pensare ad una nuova forma di governo per tale fenomeno, utilizzando categorie ideate appositamente da illustri storici per le liberaldemocrazie del nuovo millennio o meglio per i regimi parlamentari post –democratici (sembrerebbe un ossimoro)– forse quella italiana non è un’anomalia- : democrazia autoritaria, totalitarismo pubblicitario come definita da Antonio Gibelli o democrazia mediatica così come la chiama Paul Ginsborg.
Le cause già note del berlusconismo, che soddisfano solo in parte il bisogno di darne una spiegazione logica, sono sicuramente la mediatizzazione televisivo-consumistica della società di tipo americano, il conflitto di interessi ,ma gli autori provano a comprendere soprattutto cos’è che mantiene in vita questa condizione, cos’è che ha trasformato l’originario consenso (o presunto tale) in rassegnazione?
I dubbi circa l’autenticità dell’originario consenso provengono dalla natura stessa della democrazia mediatica, svelata a suo tempo dal nostro poeta Pier Paolo Pasolini proprio in uno studio televisivo e come scrive Solla nel saggio -L'Osceno- :
“ Del resto, quando l’autorevolezza di un’affermazione passa unicamente dalla televisione e il mezzo stesso e non più il contenuto, è il vero detentore di tale autorevolezza, ci si trova espropriati degli strumenti stessi di una possibile contestazione”
Il processo decisionale segue le regole dei moti pulsionali, più che cittadini si tratta di spettatori ai quali deve essere mostrato ciò che essi desiderano attraverso l’intrattenimento, che nella società capitalistica è il migliore strumento per indurre i bisogni e far funzionare il sistema economico. Così il leader politico adotta il linguaggio della star o peggio del venditore di tappeti per ottenere dei risultati. Si tratta di una soddisfazione mediatica dei bisogni (non essendo possibile quella immediata) che ci allontana sempre più da un vero confronto con la realtà, difficile, complessa e soprattutto fa sì che persista una società classista divisa tra poveri, che non possono che guardare e ricchi che vivono (o almeno vivono la vita proposta dai media).
E appunto due sono i principali leitmotiv che legano i saggi del testo: il rapporto con la realtà e il rapporto con il corpo.
Nel saggio di Seraphicus -Real(ity) politik- si legge:
“il reality rappresenta il vertice della società spettacolare , che ormai non mette più in scena un canovaccio ma si mette in scena”
È qui emblematico l’assenza di qualsiasi creatività anche nello stesso spettacolo, che induce ad accettare la limitatezza della realtà e dell’essere in assenza di qualsiasi prospettiva di cambiamento e a credere che la realtà non sia che questa, annientando qualsiasi sforzo di pensare alternative. A tale proposito Chiurco spiega nel suo saggio -Il Nulla in casa- com’è stato possibile il trionfo dell’ideologia del realismo, quello più brutale, al quale si deve la convinzione che “la politica non possa essere in alcun modo uno spazio per una trascendenza quale che sia” e non a caso ciò coincide con “la fine dell’ultima grande narrazione disponibile sulla piazza , il comunismo”.
Scrive Chiurco:
“ Per la maggiore e migliore parte della cultura dei secoli XIX e XX, la limitatezza essenziale della realtà non era qualcosa di dato, ma il risultato dell’opera di smantellamento di secolari sovrastrutture metafisiche, in primo luogo del pensiero di Dio come ente sommo posto a garanzia di un ordine immutabile della realtà. Ed è proprio per questo, grazie cioè a tale conquistata consapevolezza di stare in un mondo liberato dal mondo dietro al mondo della metafisica, che Nietzsche ad esempio, poteva trovare una sorta di trascendenza di sovrasenso. Ma nell’epoca post che noi viviamo, tale risultato non ha più nulla da dire, non evoca più alcuna sovrabbondanza, anzi, non è nemmeno più visibile. La limitatezza assoluta dell’essere non è più un risultato ma un dato immediato”
Solla nel suo saggio -L’Osceno- parla di fine dell’esperienza in quella che resta solo una società immaginaria e non immaginata, aggiungerei.
“è come se la propria esistenza fosse resa reale unicamente dalla moltiplicazione della propria immagine[…] è come se solo la certezza di essere colti dagli sguardi altrui testimoniasse di un’esistenza divenuta terribilmente incerta”
Il pensiero va a Debord e a “La società dello spettacolo”:
“L'intera vita delle società, in cui dominano le moderne condizioni di produzione, si annuncia come un immenso accumulo di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione”
Non c’è più la distinzione tra scena e o-sceno (ciò che avviene fuori dalla scena), che ormai in politica non fa più scandalo perché preceduto da decenni di televisione commerciale, accettiamo l’osceno perché ci illudiamo sia un modo per avvicinarci al potere, a quegli uomini di potere che mostrano la realtà della loro vita fatta di vizi e mediocrità, rafforzando la sindrome dell’identificazione con i personaggi visibili (star o politici non fa molta differenza perché appaiono tutti nello stesso contenitore) che ci permette di giustificarli (e votarli), se qualcuno obietta è accusato di moralismo.
Foucault parlava di "massimizzazione degli effetti di potere a partire dalla squalificazione di colui che li produce", Solla parla di potere ubuesco “ non screditabile perché già massimamente screditato” che porta in sé i germi dell’ineluttabilità, inevitabilità e quindi rassegnazione o al massimo indignazione.
Le accuse di moralismo sono efficacemente e indirettamente respinte nei saggi di Bernini -Not in my name- Il corpo osceno del tiranno e la catastrofe della virilità- in quello della Cavalieri -Così fan tutte- Berlusconismo ed emancipazioni fallite- e del Guaraldo -(In)significante padrone- Media, sesso e potere nell’Italia contemporanea- .
In una riflessione inattaccabile, Bernini evidenzia l’errore che ha fatto perfino il centrosinistra di rubricare la questione sotto la voce di affari privati:
“Come può essere considerata privata la vita sentimentale e sessuale di un premier che per primo ha fatto della sua intimità e del suo corpo uno strumento di costruzione del consenso?”
Come sostiene la filosofa femminista Haraway “la possibilità di modificare artificialmente il corpo è prova della sua costitutiva appartenenza ad un ordine culturale e quindi storicamente rinnovabile” . Vi sono profonde differenze con altre epoche in cui pure i canoni estetici rispecchiavano una visione del mondo; prendendo come esempio l’estetica dell’uomo nuovo fascista, sappiamo che questo si contrapponeva agli stereotipi della vita borghese come all’immagine del dandy, dando prova di virilità e vigore. Berlusconi invece “si limita ad assecondare le mode, ed è un uomo normale, normalmente mediocre che pur nell’eccezionalità del suo potere politico-economico, condivide la miseria di una media borghesia allo sbando”.
Al contrario della concezione dell’uomo politico nell’etica dell’antica Grecia, dotato di virilità e coraggio, capace di sfidare i luoghi comuni e di autocontrollo e quindi libertà , il nostro premier non è proprio il prototipo di uomo libero ma al contrario dell’uomo incapace di libertà perché incontinente, caratteristica che Socrate attribuiva al tiranno.
“è evidente che una libertà spinta all’eccesso si rivolti in una schiavitù spinta all’eccesso, così nella sfera privata come in quella pubblica[…]. Di conseguenza è altrettanto logico che la tirannia non possa sorgere da nessun altra forma di governo che dalla democrazia, se , come credo, la più assoluta e la più dura schiavitù deve venire da un’estrema libertà”. Platone, Repubblica, VIII 564 A
Maria Teresa Rovitto