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Regalità della luce - Maria Benedetta Cerro

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Regalità della luce
Maria Benedetta Cerro
Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta, 2009
pp. 89

Un percorso spirituale, astorico e assoluto, è quello che si dà nelle pagine di questa compatta e coesa raccolta di Maria Benedetta Cerro, poetessa con numerose pubblicazioni e riconoscimenti alle spalle. Si comincia con una discesa e una traversata (Della discesa e della traversata è il titolo della prima sezione) per passare alla Trilogia dei segni, all’Elogio della danzatrice rossa e della piccola viola e, infine, alle Stanze della luce regale, a sua volta divisa in tre sottosezioni: Stanze dell’attesa, Stanze dell’ascesa e Stanze della visione, con evidente moto ascensionale.
C’è una matrice platonica nel desiderio di purificazione e liberazione dai vincoli che pervade i versi la pienezza è ben oltre / lo spettacolo dell’apparenza»), ma non la sua prassi dialettica, negata dall’impermeabilità del soggetto poetico e dalla sua unica presenza (con l’eccezione delle due voci, comunque non antagoniste, della terza sezione, su cui torneremo), nonché dalla perentorietà di una dizione poco aperta ai dubbi.
Il tremore e la tensione non si configurano pertanto in un confronto/scontro con il mondo esterno (presente assai di rado, con pochissimi referenti concreti, quali «edicola vuota», «manto sconnesso della via» e pochi altri, subito smaterializzati nell’atto della pronuncia), ma con il senso di una distanza insita nel soggetto e direi precedente a esso: la distanza da una totalità armonica che è Dio, sia pure non nominato in tutto il corso del libro.
Nella prima sezione, forse la più riuscita, questa distanza assume toni drammatici e fermi al tempo stesso: «Ho pregato nella nebbia. / Ero un lume fioco e irraggiungibile. / Ho inviato segnali che non hai raccolto»; l’incipit stesso della raccolta, «Non ti chiamerò e non verrai»; o la terza poesia che, nel giro di pochi, asciutti e sostenuti versi, mette in scena un’epifania di sfioramento e distacco:

Me ne andavo dopo il saluto
portando stretto nella mano
il suo prolungamento.
Mi voltai – noia o spavento –
che ancora fosse nel punto del congedo.
Ardeva di luce la sua assenza
appena per me trasfigurata.
In luogo della mano
un dolore orfano
un raggio lacerato di abbandono.

Come si può notare, la versificazione – in questa come in tutte le altre poesie, con oscillazioni molto lievi – è classica, con prevalenza di settenari, novenari ed endecasillabi, scolpiti e raramente inarcati; la lingua non concede nulla a colloquialismi, coerentemente con il proprio credo poetico Fuggi da una vita dalla prosa spenta»), e anzi rilancia, in assoluto contrasto (o indifferenza?) al tempo presente, inversioni e preziosismi aggettivali (come «decapitati affetti», per citarne uno dei più riusciti) di matrice ermetica, che conducono a un’indeterminatezza professata («Ministero senza specificazioni / scioglie nodi profetici»), specchio della tensione verso l’indicibile, l’ineffabile che di rado si scioglie in quadri più fisici, di una lirismo più morbido, come qui: «Odorava di garofani la stanza / ed era inverno».
Notevole la ricerca di eufonia, non solo nell’accurata disposizione degli accenti, ma anche delle allitterazioni, come per esempio nei seguenti versi: «da un luogo stupefatto contempla / spazi dissipati dall’ampiezza. / È impeccabile e pura», con gioco delle occlusive e nasali bilabiali “p” e “m”.
Lo sfondo religioso, rintracciabile già a livello lessicale, può assumere i toni dell’ordine («Desidera, pretendi. / Sogna l’ascesa ma confida / in questa sufficienza») o della preghiera («Tollera che io sia buono / fino all’umiliazione / che io disperi / sino al trionfo della gioia»), e la solennità del discorso pare seguire l’aristotelico precetto del decoro, cioè dell’adeguamento dello stile ai temi trattati.
Più cantata e vicino alla ballata la poesia che costituisce la terza sezione, Elogio della danzatrice rossa e della piccola viola, con il suo alternarsi di strofe in terza e prima persona, spesso rimate e ancora imperniate sui temi della distanza e dell’assenza: «Lei è l’assenza / e perciò è lontana. / So che ha bracciali alle caviglie / chiome ventose e collane / di semi e di conchiglie». Qui il tono è più leggero, quasi giocoso, al rifiuto della rappresentazione si sostituisce una rappresentazione stilizzata e magica.
Al mito di Icaro – nel quale è forse riassumibile la spinta poetica della Cerro – si allude nella poesia a p. 56: «Ebbe freddo. / Fu la solitudine. / Impossibile toccare il sole / che s’attarda – l’eccesso / di sole e la sua distanza», ma il lessico relativo alla salita e alla discesa, coi poli dell’abisso e della cima, percorre un po’ tutto il libro.
Libro ben congegnato e scritto con sapienza, inscalfibile nella sua chiusura di perla («Saranno perle / rapite alle conchiglie / i versi chiusi / in globi di cristallo») ma difficile da accettare per chi cerchi in poesia un discorso sul presente e un’esperienza condivisibile, che è impedita da un mancato confronto col mondo (anzi, dal rifiuto di esso), da una visione altissima, antistorica, del poeta e – esteticamente – da una rarefazione a volte un po’ ornamentale che rischia di prevalere sugli affondi memorabili, che pure non mancano (un esempio su tutti: «Nel suo mantello avviene il perdono»).

Davide Castiglione