di Banana Yoshimoto
Feltrinelli, 2011
L’ultimo romanzo di Banana Yoshimoto scivola veloce, come un autunno che inizia tardi e lascia presto il posto all’imminente inverno. Racconta dell’adolescenza come stagione della vita di una ragazzina quattordicenne ma soprattutto della sua capacità di intuire stati d’animo e pensieri altrui, di una sensibilità artistica che le permette di vedere nelle minime cose del mondo dei miracoli quotidiani. Sullo sfondo la figura di una madre amica e di un padre assente e un innamoramento per l’insegnante di disegno, molto più grande di lei, ma capace di rivolgere lo stesso sguardo sognante alla vita e di condividere le sue passioni. La storia di Yuko prende corpo tra immagini di paesaggio, di città, di fiori, tra linee di matita. Colori pastello e accese tinte autunnali si combinano e regalano immagini intime, sempre delicate come quella dell’autunno:
Il mondo mi sembrava risplendere di un colore ben preciso. Sarà stato il marrone brillante delle castagne e il giallo vivo del loro interno, o l’odore di legno secco dei funghi maitake appena tirati fuori dal sacchetto di carta, o forse il verde e il giallo della zucca, la sua pazienza.
Banana Yoshimoto si conferma ancora una volta capace di una scrittura intimista sì, ma mai ermetica. Al contrario procede sempre fluida e si rivela più adatta alla descrizione di atmosfere che alla costruzione di un intreccio romanzesco strutturato. In fondo la storia di Yuko procede sottile, in campo lungo, ma quel che fa il romanzo è la caratterizzazione dell’adolescenza come età dialettica di cambiamento, in primo piano. Tutte le descrizioni di contorno, in questo modo, non appaiono accessorie o secondarie, ma perfettamente inserite nel tessuto narrativo. Anzi, sono esse a costituire il tessuto narrativo. E a tratti si avverte quasi un misticismo di fondo, come se disegnare, mangiare, persino crescere fossero riti da compiere silenziosamente, con devozione religiosa.
Se cè un elemento che mi ha poco convinta è il fatto che la quattordicenne Yuko non si esprime o pensa mai come una ragazza della sua età. Sembra capace di riflessioni e di una maturità a mio parere, a tratti, inadeguate, stonate. Più che di una stagione di crescita pare si racconti di una maturazione già avvenuta. Si ha l’impressione che sia un adulto a ricordare la sua adolescenza e a ricostruirla con la propria voce presente.
Accanto a questo devo ammettere che “High and Drive. Primo amore” è un romanzo che si può apprezzare a più livelli. Può piacere ai giovani che si riconoscono in certi particolari o anche a chi è innamorato della cultura e del mondo giapponese, di quei suoi tratti peculiari che lo rendono un intarsio magico, una piccola opera d’arte.
Il rischio che si corre è che questo libro, come ho detto all’inizio, scorra così veloce da non lasciare niente. Le fisionomie dei personaggi sono solo abbozzate e non vengono mai indagate nel profondo. Le loro motivazioni esistenziali solo suggerite.
Tutto è lasciato in sospeso, tutto è in fase di transizione. Ancora una volta come l’autunno. E, per questo, i toni e i suoni non sono mai gridati o stridenti, ma ovattati, lievi, come il cadere delle foglie dagli alberi.
Claudia Consoli
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