Noi credevamo
di Anna Banti
Mondadori, 2010
1^ edizione: 1967
pp. 347
€ 9.50
Con postfazione di Enzo Siciliano
Il romanzo bantiano, uscito nel 1967, in tempi non sospetti per un romanzo risorgimentale, raccoglie le memorie dell'ormai anziano Domenico Lopresti (nonno dell'autrice), che di suo pugno confessa gli eventi della sua esistenza, con particolare attenzione alla sua partecipazione all'esperienza risorgimentale. Siamo quindi in presenza di un narratore omodiegetico, piuttosto bizzoso e incostante, che riflette sulla carta quel «sentimento feroce di negatività» rinvenuto da Enzo Siciliano in un precoce articolo sul romanzo.[1]
Le memorie di Domenico non sono ricordi destinati alla pubblicazione come quelli di molti suoi compagni di prigionia:
«Ma ecco che un pensiero mi rianima: i romanzieri scrivono storie perché qualcuno le legga: ci contano, ci si affannano. Io, invece, non scrivo per nessuno […] Non vorrei cadere nella trappola della dichiarazione autobiografica, insomma delle “memorie” […]. Ritengo infatti che il memorialista non possa esser sincero. Esser stato testimone e vittima di soprusi e tirannie non libera da una magari inconscia autocompiacenza e dalla tentazione di tacere le debolezze, le meschinità che ogni uomo, in ogni condizione, inevitabilmente commette» (da Anna Banti, Noi credevamo (1967), Mondadori, Milano 2010, pp. 34-35).ma alle fiamme,
«Il cammino su cui mi son messo è sdrucciolevole, più mi ci inoltro e più m’impantano: per fortuna affido i miei sfoghi a questi fogli destinati al fuoco» (ib., p. 25),perché semplice sfogo sempre più necessario al vecchio e malato protagonista. Ne consegue che la narrazione è dominata dalle analessi, con sfilacciate riflessioni sul presente torinese (dove Domenico s'è trasferito da poco e dove intende morire), e sulla famiglia che ama pur senza stabilire con i figli e la moglie una reale comunicazione. I fatti storici, i terribili anni di prigionia, gli incontri e le delusioni sono filtrati dall'esperienza e dalle impressioni di Domenico, che via via supera le diffidenze iniziali e racconta «il definitivo tramonto dei suoi tempi».[2]
Come precisato dall'io-narrante nel primo capitolo, nelle pagine manca qualsiasi intento pedagogico,[3] né vi è ricerca di un apologetico autoincensamento.[4] A Domenico interessa solo condividere «egoisticamente» i propri crucci, «scribacchiare furtivamente». La pratica privatissima dell’operazione memoriale è agita con «l'obbligo di guardarsi da estraneo» e di dare un «meticoloso e spietato ritratto» di sè, «per riconoscersi e non scendere nella tomba ignoto a se stesso come fu nascendo».
Lo scavo psicologico, le frequenti interruzioni per la malattia affaticante o per l'arrivo dei famigliari, fanno sì che ci si trovi in presenza di una prosa profondamente volubile e soggettiva. È un esempio di quella «privatizzazione della storia» che per Lukács trova realizzazione nella memorialistica, intesa come
«espressione letteraria adeguata per il suo smascheramento della pseudograndezza storica: tutto viene visto dalla vicinanza immediata della vita privata di tutti i giorni e il falso pathos degli eroi artificiosamente creati e immaginati si dissolve quando viene illustrato con questo procedimento microscopico».[5]Nel libro, Domenico tradisce fin dalle prime pagine la sua profonda disillusione nei confronti della storia, intesa come corruttrice dei valori autentici. Infatti, il giovane Domenico, fervente mazziniano e unitario, mosso da sinceri e altissimi ideali patriottici
«Garibaldi, triste a dirsi, non era, anche in quel tempo, universalmente amato: molti lo giudicavano una testa matta, un avventuriero, un guastafeste. Constatarlo e ardere di sdegno fu tutt’uno» (p. 27).viene smentito dagli eventi, tradito e rinchiuso in carcere, condannato a scontare oltre dieci anni per la sua passione politica:
«Non pensavo a niente, ero solo un altero animale che badava a raccogliere le forze per non gemere come un cane bastonato. Le idee di cui mi ero lungamente esaltato, progresso del popolo, indipendenza, libertà si erano sciolte in un silenzio totale della mente e anche del cuore: perfino l’odio del tiranno che mi aveva privato di ogni bene non scattava più, era una molla rotta» (p. 46).Così, al rivoluzionario non resta che assistere da spettatore dietro le sbarre dei vari carceri che lo vedono prigioniero ma sempre interessato alla causa italiana. La detenzione porta momenti di fratellanza e di condivisione, ma non mancano giorni asfittici di scoramento, malattia, paura di tradimento, disillusione, sofferenze, fino alla dolorosa presa di coscienza che la lunga segregazione «aveva agito su di lui come una lontananza di migliaia di miglia: alle vere condizioni del Regno egli aveva sostituito una serie di immagini brillanti e inconsistenti», per permettere alle illusioni di sopravvivere.
Poco si sa delle pratiche preparatorie di Anna Banti, da sempre restia a rendere pubblico il proprio lavoro di scrittrice. Alla studiosa Grazia Livi, ha dichiarato sbrigativamente:
«M'ha sempre interessato la vita di questo mio avo [...]. Conservo le sue lettere. E' una storia a cui ho pensato per molti anni».[6]Certo è che l'interesse della Banti per la storia, da sempre presente (si vedano anche le sue riflessioni teoriche nel volume Opinioni del 1961), è accentuato in questo libro di memorie. Il «sobrio affetto» e «la storica partecipazione» (definizioni continiane) con cui la scrittrice riprende le vicende del nonno fa da contraltare a uno stile elaboratissimo, marcatamente ottocentesco e verosimile, che non si inserisce per nulla nella sperimentazione spinta degli anni sessanta italiani.
Ricordo che al libro si è liberamente ispirato Mario Martone per la sceneggiatura del suo acclamato e discusso Noi credevamo (2010). Il film riprende la figura di Domenico Lo Presti in Domenico La Greca, ma con notevoli differenze rispetto al libro, che evidenziano l'aspetto politico del garibaldino, anziché la figura a tutto tondo del libro della Banti.
Gloria M. Ghioni
[1] Enzo Siciliano, Il Risorgimento scritto con rabbia,
«L’Espresso», 23 aprile 1967.
[2] Ib., p. 11.
[3] «Quel che, bene o male, ha sostenuto la mia tenacia avventurosa, non serve
a lui e ai giovani della sua età» (ivi).
[4] «Se gli parlassi, dovrei prima cosa difendermi, atteggiarmi a eroe:
proprio quello che mi ripugna» (ivi).
E ancora: «Se di qualcosa posso vantarmi è la ripugnanza per il mito dell’eroe
a buon mercato, per il bel gesto demagogico: anche oggi, in questo ultimo
barlume di vita mentale, la ritrovo intatta, essa resiste vittoriosamente al
ricordo del giorno che io pure figurai, se non da eroe, da protagonista» (ib., p. 167).
[5] György Lukács, Il romanzo storico e la crisi del realismo,
in Id., Il
romanzo storico (1957), Einaudi, Torino 1965, p. 267).
[6] Grazia Livi, Anna Banti o della impersonalità,
«Paragone», dicembre 1985.
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