Fino a qui
di Enrico Marià
Puntoacapo 2010
€ 10
con prefazione di Luca Ariano
«Scrivere poesie non è difficile; difficile è viverle». Questa frase di Bukowski potrebbe essere l’incipit perfetto di una presentazione alla raccolta di Enrico Marià, giovane autore alessandrino che ha già al proprio attivo una menzione speciale della giuria al premio “David Maria Turoldo”. L’aforisma bukoskiano non evoca in questo caso soltanto il dato autobiografico del libro, che indubbiamente esiste ed è stato ampiamente discusso nella prefazione di Luca Ariano, ma un fatto assai meno ovvio: i versi di Enrico Marià possiedono la forma della vita ben più di quanto ne rispecchino qualunque contenuto.
Tutto quello che vorrei
è essere qualcosa della vita presa al suo massacro (pag. 29)
Un libro che somiglia alla vita deve avere la prerogativa di vibrare sotto gli occhi e le dita che lo sfogliano, di non lasciarsi afferrare neppure visivamente: quello di Marià spesso trabocca dalla pagina, mentre il verso esonda dal rigo, muta continuamente direzione e registro, non concede alcuna quiete, alcuna prevedibilità.
prima che la vita mi esca da dentrocome se in me non ci fosse più spazio per lei (pag. 48)
Ancora come la vita, questa poesia non ha regole estrinseche, ma è dominata da una legge interna che si può afferrare soltanto a posteriori:
Nessuno di noi può capire quanto dolore ci portiamo dentrosino a quando non incontriamo qualcosache facendolo sparire lo misura (pag. 19)
Questo “qualcosa” è proprio la capacità di simbolizzare il travaglio: se l’uomo è di per sé un animale simbolico, il poeta – questo poeta – è in grado di leggere il simbolo-parola attraverso la lente della consapevolezza, con difficile e dolorosa ironia.
Mi vedo accasciarminella consapevolezzache non esiste nientein grado di ricambiarela disperata sinceritàdel mio infinito bisogno d’amore (pag. 63)
Il tempo e il luogo della consapevolezza partono dalla radice materna, da quell’unico amore assoluto che la vita non può cancellare:
Uno dei pochi desideri che ho ancoraè quello di portare la donna che mi ha messo al mondonel posto in cui l’arcobaleno tocca la terrae lì felice vederla sorridereperché è solo così che la voglio ricordare (pag. 51)
Da tale imprinting nasce la tensione verso l’altro, la fame di un altro affetto vero, che ci riscatti e ci accolga come siamo: lo sanno bene i personaggi che popolano i versi, Stefano bruciato dalla droga, la prostituta indifesa e maltrattata, tutte le creature troppo sensibili per sopportare con pacifica indifferenza la vita. Lo sa anche quel “tu” niente affatto impersonale che aleggia ovunque ed è la donna cercata, forse perduta già in partenza per un nobile marchio di solitudine che in Marià è tragicamente autentico, senza vezzi estetizzanti né patetici piagnistei:
Prima di sparire nel nulla,vorrei rubare vita alla vitaper avere la forza di cercarti (pag. 50)
Ci rendiamo conto, come si legge ancora nella prefazione, che quella di Marià è una poesia densa di echi letterari, da Lee Masters a Caproni a Pavese: aggiungerei che i suoi versi, così fortemente reali e spesso crudamente narrativi, non sono per nulla “immediati”. Non è un certo artificio letterario, ma è la sofferenza stessa a frapporsi fra la pagina e il poeta, impedendogli di riversarsi in essa con rozzo autobiografismo o – peggio – con esiti ingenuamente diaristici. La sofferenza si fa allora virile saggezza, saltando completamente la fase di maniera, gnomica e moralistica (che è sempre la morte della poesia) e trasformando alcune immagini in potenti aforismi esistenziali, come in questo verso:
la vita è fatta di ciò che non riusciamo a vivere (pag. 26)
Il dolore, pietra filosofale di quest’arte, ne forgia gli strumenti in una fucina personalissima, capace di compiere un’operazione non molto comune nella poesia contemporanea: quella di scindere immediatezza e verità, sincerità e intimismo. I versi di Marià non sono mai intimistici; sono sempre veri. Sono true, in tutta l’intraducibile messe del senso anglosassone (vero, sincero, autentico, non adulterato, fedele al dato di realtà). Un bellissimo risultato per un poeta così giovane, che quando scrive riesce nell’intento di raccontare ciò che non è facile né gradevole ascoltare: se la vita di ognuno è fatta di capitolazioni e rinunce, non così la poesia di Marià, che non si arrende mai nel tentar di dire l’indicibile. La poesia, in un’ipotetica gara di verità con la vita, dimostra di saper dare scacco a quest’ultima sul suo stesso terreno, al punto da indurci a rileggere con occhi nuovi il famoso paradosso di Oscar Wilde: è la vita ad imitare l’arte, non il contrario.
Alessandra Paganardi