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Urania e Callipe, Simon Vouet |
Tra poco, ci sarà silenzio. Perché, dico, perché se tento di spiegarti una poesia storci il naso, porti gli occhi da un’altra parte (tanto per essere chiari, i tuoi occhi dovrebbero poggiarsi sempre sui miei!), fischietti, giocherelli con le mani, fai le boccacce… Sì, mi sembri un sorcio impaurito, a volte. Perché, dico, perché fuggi? Certo, certo: non si può spiegare la poesia. Certo, certo: la poesia spiegata è ridicola (è tradita?). È spiegata, cioè: spiegare, “spiegare le vele” (si dice spesso). Oppure: stendere, ordinare. È inutile continuare. Come si stende, come si ordina una poesia? La poesia è. Resta chiusa. Ma che senso ha? No, la poesia non si deve spiegare. Ma perché, dico, perché se tento… diventi un sorcio impaurito? Non possiamo dire in che maniera questa parola, o l’altra, o questa ancora, vogliano raccontare che… Non possiamo dire in che maniera questa rima, o l’altra, o questa ancora, vogliano raccontare che… Ma è bello parlarne, no? Parlarne durante la notte… Esatto! Ho organizzato tutto: i biscotti, i tovaglioli di seta, le tazze di porcellana, il tè, lo zucchero. Carta e penna. E ci sono le coperte ben piegate. Tutto è organizzato. C’è anche il fuoco, nel camino, che scoppietta (è castagno il legno che brucia, il cui profumo ti piace tanto). Se tu fossi seduta di fronte a me, a tavola, vedresti le mie mani poggiate sulle gambe (non proprio: il tavolo coprirebbe le mani. Ricomincio). Se tu fossi seduta accanto a me (ora va meglio), sul tappeto (va ancora meglio), vedresti le mie mani poggiate sulle gambe (ci siamo). Vedresti le dita su alcuni versi, in procinto di ammonirti: perché, dico, perché fuggi? Spieghiamo la poesia, decidiamo quale è buona e quale è cattiva. Hai visto quanti poeti? Quanti poeti inquinano il mondo! Non una sola poesia che lo abbellisca. Quanta poesia: c’è chi la capisce, chi finge. Chi non sa che esista. Sì, spieghiamo la poesia. Ma rovinerei ogni cosa. Mi diresti che sono isterica. Forse dovresti vedere le mie mani che disegnano (chissà dove) la poesia che vorrei spiegarti, mentre prendi un biscotto, lo inzuppi nel tè, asciughi la bocca con il tovagliolo, allontani sdegnosa lo zucchero (tu lo bevi amaro, lo so) e osservi il fuoco, la notte appiccicata alla tendina che copre la finestra. E ti avvicini per baciarmi… Desidero troppo? Sta per rispondermi.
«Che speri, che ti riprometti, amica,/se torni per così cupo viaggio/fin qua dove nel sole le burrasche/hanno una voce altissima abbrunata,/di gelsomino odorano e di frane?
».
Hai ragione: parlo, parlo… non so nemmeno cosa dico. Pongo domande, pongo risposte: ti interpreto. Ma tu resti lì, o da qualche parte, con i tuoi significati. Ti viene in mente qualcosa, che scrivi su un foglio (tu fai la poetessa), unisci ciò che è contraddittorio… Ti viene in mente qualcosa? Magari ci fossi io, nei tuoi versi, magari ci fossi. Ho paura, provo ugualmente: sono ancora nei tuoi pensieri?
«Mi trovo qui a questa età che sai,/né giovane né vecchi[a], attendo, guardo/ questa vicissitudine sospesa;/non so più quel che volli o mi fu
imposto,/entri nei miei pensieri e n’esci illesa».
Illesa? Illesa? È così? Dopo millenni di frequentazione, dici: illesa! Non sarò più giovane, non sarò più bella come una volta, ma… come puoi dire questo? Sapevo della tua estraneità riguardo l’esistenza (ciò ti rende irresponsabile, o furba), non sapevo che sarei entrata e uscita dai tuoi pensieri così come scorre un fiume, così come piove, così come un qualunque cane latra, così come la luna, così come tutto quello che pare, non pare, pare, non pare, avere senso. Proprio questo?
«Tutto l’altro che deve essere è ancora,/ il fiume scorre, la campagna varia,/grandina, spiove, qualche cane latra,/esce la luna, niente si riscuote,/niente dal lungo sonno avventuroso».
Proprio questo. Silenzio.
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