Dante a Palermo (1)
(Verosimile al 50%)
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di Dario Orphée
Fino a quando sarai prigioniero di colore e profumo?
Fino a quando inseguirai ogni brutto e ogni bello?
[…]
’Omar Khayyâm
1. Nel chiostro della Biblioteca Regionale di Palermo, protetto da quattro pianticelle (ficus, mi pare che siano) annaffiate soltanto dalle rarissime piogge siciliane, spicca una stele in marmo alla cui estremità, poggiato su due volumi sistemati a casaccio, vi è il busto di Dante Alighieri. Il volto di Dante è molto simile a quello raffigurato dalla maestosa statua di piazza Santa Croce, a Firenze: sopracciglia inarcate, bocca chiusa, occhi fissi su un punto (l’inferno o il nulla?). Incontrare lo sguardo di Dante? Potresti tentare un milione di volte, cambiando posizione quanto ti pare; il Sommo Poeta rifuggirà da te sempre, e avrà gli occhi altrove, mai sui tuoi. Ritengo che ad ogni scultore, Dante dia delle indicazioni precise durante la realizzazione dell’opera, manifestandosi ad essi vestito da musa. Questa è l’unica spiegazione, poco razionale, che riesco a darmi. Non che voglia a tutti i costi vedere un Dante sorridente! Ma, insomma, non mi dispiacerebbe stare a quattrocchi con uno dei miei poeti preferiti, senza preoccuparmi di venire azzannato. Nel caso in cui ciò accada… nel caso in cui un nuovo scultore contemporaneo forgi un Dante dagli occhi sereni, dallo sguardo mite[1]… nel caso in cui la statua, mediante un incantesimo, prenda vita… cosa farei? Non so. Se ciò accadesse, dopo aver ringraziato il Sommo (per vari motivi: innanzitutto per avermi narrato l’amore nell’adolescenza), certamente gli domanderei: «Perché sei arrabbiato?». Egli, rispondendo -immagino- in terzine, mi direbbe qualcosa sulla decadenza letteraria in Italia, (vi immaginate un’analisi di critica letteraria fornita da Dante Alighieri? Un’analisi in versi? Non ci sarebbe cosa più preziosa!), sulla decadenza politica, sulla decadenza sociale, sulla decadenza culturale, sulla… sulla decadenza, punto. Poi, per “svagarci” un po’, per fuggire da temi troppo pesanti, lo accompagnerei alla Vucciria a mangiare pullanche[2], patate bollite e stigghiola. Ma lui, ne sono certo, rimarrebbe arrabbiato. Sì, ne sono certo. Il malessere di un poeta non si cura mica con una pullanca! Chi ha letto almeno la biografia di un poeta, conosce il perché. Poi, andrei al Foro Italico a guardare gli aquiloni che volano in cielo. Ma niente, non accadrebbe niente. Sono sicuro che Dante rimarrebbe con quell’espressione paurosa. Eppure… due esseri umani risolleverebbero l’umore di Dante: Virgilio e Beatrice. Riguardo al primo, non posso assolutamente aiutarlo: io avrò meno dello 0, 00001% della saggezza virgiliana, e i miei versi sono grugniti di maiale al confronto dell’Eneide (ma anche i grugniti di maiale hanno il loro fascino); riguardo alla seconda opzione, potrei organizzare una cena con le mie amiche. Loro non hanno nulla di Beatrice, anzi, sono come la fanciulla del “Contrasto”, ma… chissà che nasca una “Seconda Divina Commedia” e Dante torni a sorridere. Benissimo! Organizzerò la cena.
2. La cena con le mie amiche è stata un disastro. Questi i particolari. Ho chiamato tutte le “desperate single”, come dice il mio coinquilino Fulippu Ogghiu Friutu[3], disponibili e di buon umore, dicendole che mi avrebbe fatto piacere incontrarle, passare una serata insieme a loro e simili; e che un “mio amico venuto dal passato”, un professionista affermato, era stato lasciato da poco dalla sua ragazza, e così via. Poi, sono andato a fare shopping con Dante. Purtroppo, non avendo disponibilità economiche[4] (e avendo lui, invece, un paio di inutilizzabili fiorini toscani in tasca), ho abbandonato presto l’idea di un abito firmato da uno stilista italiano, e ho acquistato ciò che il portafoglio mi permetteva. In poche parole, ho accompagnato Dante dai cinesi. Con meno di quaranta euro, Dante è uscito dal negozietto con un chiodo di pelle tutto borchiato, un paio di jeans a zampa di elefante, una camicia a righe marroni e gialle e un paio di stivali neri, lucidissimi, sui quali ci si poteva specchiare. Il Sommo era davvero inguardabile. Tuttavia ha fatto colpo. Spiego il perché. La sera dell’appuntamento, siamo arrivati al ristorante parecchio in ritardo (Dante non trovava un’acconciatura adatta, una cravatta decente, un profumo esotico…), e le mie amiche erano sedute al tavolo ad aspettarci. C’erano: Carmela, Jessica, Annunziata, Tiffany, Assunta, Samantha, Rosaria, Summer e Concetta. Devo ammetterlo, erano bellissime: capelli freschi di parrucchiere, decolleté profondi, tacchi altissimi e particolari che non si possono descrivere[5], sui quali gli occhi miei e quelli del mio “amico” facevano spesso visita. Quando mi videro arrivare con Dante accanto, le ragazze si alzarono in piedi (con me non lo avevano mai fatto) e tutte, sì, tutte, mi domandavano con discrezione mentre le salutavo: «Chi è il figo? Sembra una rockstar!». Per quello che ne capisco, “figo” e “rockstar” sarebbero sinonimi di “bello”, “attraente”, ecc. Che le ragazze abbiano usato tali appellativi poco mi importa. Mi ha infastidito il fatto che Dante non è stato riconosciuto immediatamente. Ma lasciamo questo particolare. Inizialmente, la serata scorreva bene: Dante ammaliava tutti raccontando aneddoti e declamando poesie, al suo solito. Poi, però, ritengo a causa del vino, il Poeta, tornando dal WC, iniziò ad assumere al volto, progressivamente, quella classica espressione arrabbiata che mi impaurisce tanto. Dopo qualche attimo di silenzio, scoppiò a piangere. «Beatrice! Beatrice! Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice ne la miseria…», urlava. Non potevo far altro che abbandonare la sala e le mie amiche. Per tutta la notte, Dante e io andammo in giro per la città, in cerca di Beatrice. Ma di bello, vedemmo soltanto un motocarro a tre ruote caricato ad angurie, che, visto da dietro, mi ricordava vagamente (e non so perché feci questo accostamento) “Viva la vida” di Frida Kahlo.
3. Come prevedevo, non trovammo nessuna Beatrice per strada. Soltanto dei simpaticissimi “ragazzoni” in parrucca, rossetto e minigonna lungo Corso dei Mille e un gruppo di spagnole mezze ubriache che (non l’avessi mai fatto!), avendole urtate per sbaglio mentre con Dante ci si recava a casa, attaccarono bottone e ci parlarono per ore in un italiano incomprensibile. Sì, parlavano, parlavano, senza nemmeno avere argomenti (è una qualità che invidio, questa). L’indomani mi svegliai molto tardi, e trovai Dante e Fulippu Ogghiu Friutu davanti la tv. Stavano guardando il telegiornale. La notizia che il Sommo e il mio coinquilino seguivano, facendo zapping di volta in volta, era il massacro in Norvegia. Non dicevano una parola, ma dall’espressione ritengo fossero abbastanza preoccupati (no… forse erano sdegnati da quella manifestazione di orrore). In quel momento, mi venne in mente un’illuminazione, come sempre sottoforma di domanda. Questa: la “teoria della ricezione”, formulata da Hans Robert Jauss, oltre alla letteratura (cioè, ai racconti medievali e i romanzi moderni in maniera specifica), è applicabile anche alla televisione? Lo spettatore, come il lettore, è un essere vivente che ha parte attiva nei confronti di ciò che fruisce, oppure è un vegetale? Ovvero: dinanzi la tv, egli assorbe le immagini, i messaggi e le onde elettromagnetiche come un pianta assorbe i raggi del sole per la fotosintesi clorofilliana? E, inoltre, il significato dato è univoco, o no? Capiscono tutti alla stessa maniera? Se avessi studiato con maggiore interesse sociologia! Eppure ricordo che Valerio Magrelli, ne “Disturbi del sistema binario”, aveva trattato di ciò. Nella poesia “11 settembre 2011”, Magrelli scrive in una nota posta sotto la poesia: «Il poeta riflette sul fatto che, nella notte seguente l’attentato, centinai di milioni di telespettatori avranno presumibilmente sognato, in lingue e paesi diversi, il medesimo sogno[6]». Non so se la teoria di Hans Robert Jauss sia applicabile, non so nemmeno se la sua associazione alla tv sia corretta (non sono un intellettuale, per fortuna). So che il massacro verrà dimenticato, alla stessa velocità con cui Fulippu Ogghiu Friutu cambiò canale, per seguire su un programma musicale una canzone che faceva:
“He left no time to regret
kept his dick wet
with his same old safe bet…”.
kept his dick wet
with his same old safe bet…”.
La canzone, inserita in quel triste contesto, era una colonna sonora perfetta, anche se avrei preferito che un’orchestra poggiata su un cumulonembo suonasse un Requiem di Mozart (aspettai qualche secondo alla finestra, ma la richiesta non fu consentita). Mi accontentai ugualmente, perché a Dante piaceva: lo vedevo battere il tempo con le dita sul tavolo e scuotere la testa, con un accenno di sorriso. Nessuno di noi immaginava che, poche ore dopo, “Back to black” sarebbe stata perfetta, invece, per l’autrice. «Il citofono! Il citofono!», sbraitava Fulippu. Preso dai miei pensieri, non lo avevo sentito. Era quello dello sfincione. Chiesi a Dante se lo volesse e lui, dopo aver detto di sì, rivolse inver’ lo cielo il viso.
[1] Potrei chiedere a Boltanski.
[2] Pannocchie di mais bollite.
[3] Cioè: Filippo Olio Fritto.
[4] In questo periodo non sono l’unico. L’ultima fotografia scattata sull’Italia dall’Istat e da Standard & Poor's non è rassicurante.
[5] Preferisco non danneggiare la moralità pubblica con dei temi eccessivamente “caldi”. La nostra società, inoltre, ritengo non sia preparata: siamo rimasti ai pettegolezzi, ai film romantici di prima serata, le veline, a miss “qualunquecosa”, le escort, ecc. Non ci siamo ancora evoluti verso un sanissimo erotismo.