Diaspora. Storia degli ebrei nel Novecento
di Anna Foa
Laterza, 2009
Laterza, 2009
La periodizzazione è uno dei temi più importanti della storiografia perché dalla periodizzazione che uno storico adotta per trattare la macrostoria o la storia di un paese, di una guerra, di un popolo, di una rivolta … si comprende oltre che la sua impostazione di lavoro, da quale prospettiva ci vuol fare guardare i fatti, da quale porta vuol farci entrare nella storia e da questo possiamo comprendere già dove vuole farci arrivare e anche qualche sua posizione.
Leggendo il titolo di questo volume di Anna Foa (docente di Storia Moderna alla facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università La Sapienza di Roma) ci si aspetterebbe una grande opera che ripercorre le vicende del popolo ebraico dal mondo antico a oggi (dato che non si parla di diaspore ma di “diaspora” termine che nel senso comune viene facilmente associato agli ebrei, se non altro per qualche reminiscenza del catechismo). Ma il sottotitolo (“Storia degli ebrei nel Novecento”) ci permette di comprendere meglio a quale periodo storico ci si riferisce.
Un “lungo Novecento” – potremmo dire capovolgendo la periodizzazione di Hobsbawm alla base del suo volume del 1994 Il secolo breve che parla di un Novecento che inizia con la prima guerra mondiale e finisce con il dissolvimento dell’Urss – che per gli ebrei inizia almeno dalla fine della fine dell’800 e dai presupposti del sionismo, dell’antisemitismo e dello Stato d’Israele. Il libro in realtà termina con la nascita, appunto, dello Stato di Israele (1948), con l’aggravarsi della situazione in medioriente e con la “guerra dei sei giorni” (1967), ma lascia intravedere una lunga storia ancora da vivere, comprendere e scrivere.
Il testo ripercorre il clima culturale che si era formato nel’800 e che ha permesso lo stratificarsi sia nella popolazione che nella classe politica di alcune convinzioni e pregiudizi strumentali che sono poi sfociati nel nazismo. Inevitabilmente per un lavoro di questo tipo e certo per chi volesse approfondire bisogna rifarsi a Il razzismo in Europa. Dalle origini all’Olocausto di George Lachmann Mosse del 1978, già autore qualche anno prima de La nazionalizzazione delle masse e l’Intervista sul nazismo, tra i titoli più importanti della storiografia del secondo dopoguerra. E così si riprendono de Gobineau, Wagner e suo genero, le nuove teorizzazioni linguistiche con l’introduzione dell’idea che la lingua tedesca non sia una derivazione, come tutte, dall’ebraico, ma abbia una storia a sé e venga dall’indoeuropeo. Si ripercorrono le tappe di quello che Mosse aveva chiamato “Cristianesimo infetto” quello sradicamento della religione cristiana e del messaggio cristiano dall’ebraismo e da quel contesto culturale, e passano in secondo piano il Vecchio Testamento e ancora di più il Talmud, che August Rohling (sacerdote e docente di teologia) nel suo L’ebreo talmudista giudica il testo sacro un “breviario anticristiano” dove i cristiani sono mal visti e considerati inferiori. Ciò incontra anche un antigiudaismo diffuso tra la popolazione europea sin dal medioevo che vede gli ebrei accusati di omicidio rituale, ovvero di rapimenti di giovani cristiani da usare nei loro riti. E l’idea di un ebreo che usa il sangue del cristiano europeo per i propri fini dura fino al Protocollo dei savi di Sion (1905 giudicato successivamente un falso) e al Mein Kanpf di Adolf Hitler (1924), ma il tutto acquista un significato poco religioso e molto economico e politico, poiché in tempo di crisi per Germania – prima sconfitta nella seconda guerra mondiale, poi per la crisi economica del 29 – poco importa di chi abbia ucciso Cristo (altra accusa rivolta agli ebrei dai cristiani era quella del deicidio), ma molto di più che vuole congiurare contro la propria nazione e contro la propria integrità (l’ebreo vampiro, l’ebreo che violenta la giovane vergine tedesca, l’ebreo che insozza il sacro sangue del Volk).
Ma la Germania a cavallo tra i due secoli è un’epoca di forti contraddizioni. Otto Weiniger, giovane filosofo suicidatosi nel 1903 a 23 anni, aveva già pubblicato il suo Sesso e carattere “opera scientifica sperimentale” dove teorizza l’inferiorità della donna e dell’ebreo, o meglio, della “qualità femminile” e di quella ebraica. E lui era ebreo.
Questi aspetti del clima in cui si è formato il nazismo sono esposti di pari passo alla nascita del sionismo e delle alyiot (salita, verso Gerusalemme) in Palestina di ebrei che fuggono dai pogrom soprattutto della Russia zarista, anche perché gli ebrei erano stati e saranno socialisti e quindi mal visti dal potere che scatena contro di loro l’odio popolare che li vede come fonte di ogni male, e l’immagine di ebreo comunista e sobillatore viene usata un po’ ovunque quando bisogna tenerli lontani. E tra le persone che fuggono, in questo caso dalla Polonia, c’è anche Ben- Gurion fondatore e primo ministro dello stato d’Israele. E infatti, dopo aver affrontato la tragedia della Shoah, si cerca di capire quale fosse la condizione degli ebrei sopravvissuti in Europa (e possiamo riferirci ai displaced persons) e di quelli che sono nel “focolaio nazionale”, Yishuv (insediamento), in Palestina e ripercorrendo tutte le fasi dell’insediamento: mandato britannico e libri bianchi, l’emiro Faysal che combatte al fianco di Lawrence d’Arabia, l’inizio dei conflitti arabo-palestinesi e la nascita dei gruppi armati israeliani. E poi lo stato nel 1948 e nuovi conflitti.
Nel 1945 c’è il processo di Norimberga che porta all’introduzione di novità nella giurisprudenza internazionale come l’accusa di “crimini contro l’umanità” che purtroppo abbiamo continuato a sentire durante il nostro secolo. Tra gli anni 50 e gli anni 60 nasce il “culto della vittima” e la necessità continua di ricordare che porta a un eccesso di memoria. E ciò coincide in particolare con il diffondersi di documentari (Nuit et brouillard di Alain Resnais del 1955 e soprattutto Shoah di Carl Lanzmann del 1985), opere letterarie (Se questo è un uomo di Primo Levi che prima passa inosservato e viene pubblicato con successo da Einaudi solo alla fine degli anni ’50 ovvero quando si erano creati i presupposti editoriali e culturali perché ciò potesse avvenire o come La notte di Elie Weisel sempre della fine anni ’50 scritto prima in Yiddish poi in francese), interviste e testimonianze di sopravvissuti.
Alla fine ci si chiede chi sono oggi gli ebrei. Per semplificare, (la Foa ovviamente ce ne parla a inizio libro) gli ebrei della diaspora del 70 d.C., dopo la distruzione del tempio si dividono in tre grandi gruppi: Ashkenaziti (ebrei di cultura tedesca), Yiddish (ebrei dell’est che parlano questa lingua) e Sefarditi (gli ebrei di Spagna), ma ad esempio in Italia ci sono comunque ebrei che non appartengono prettamente a uno di questi gruppi e ebrei di culto sefardita. Un popolo che nella sua diversità interna, perché sempre confrontatosi con le culture dei paesi in cui si trovava a vivere, è sempre stato culturalmente vivo. E che non solo è stato, prima della Shoah, ma continua a esserlo.
Leggendo il titolo di questo volume di Anna Foa (docente di Storia Moderna alla facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università La Sapienza di Roma) ci si aspetterebbe una grande opera che ripercorre le vicende del popolo ebraico dal mondo antico a oggi (dato che non si parla di diaspore ma di “diaspora” termine che nel senso comune viene facilmente associato agli ebrei, se non altro per qualche reminiscenza del catechismo). Ma il sottotitolo (“Storia degli ebrei nel Novecento”) ci permette di comprendere meglio a quale periodo storico ci si riferisce.
Un “lungo Novecento” – potremmo dire capovolgendo la periodizzazione di Hobsbawm alla base del suo volume del 1994 Il secolo breve che parla di un Novecento che inizia con la prima guerra mondiale e finisce con il dissolvimento dell’Urss – che per gli ebrei inizia almeno dalla fine della fine dell’800 e dai presupposti del sionismo, dell’antisemitismo e dello Stato d’Israele. Il libro in realtà termina con la nascita, appunto, dello Stato di Israele (1948), con l’aggravarsi della situazione in medioriente e con la “guerra dei sei giorni” (1967), ma lascia intravedere una lunga storia ancora da vivere, comprendere e scrivere.
Il testo ripercorre il clima culturale che si era formato nel’800 e che ha permesso lo stratificarsi sia nella popolazione che nella classe politica di alcune convinzioni e pregiudizi strumentali che sono poi sfociati nel nazismo. Inevitabilmente per un lavoro di questo tipo e certo per chi volesse approfondire bisogna rifarsi a Il razzismo in Europa. Dalle origini all’Olocausto di George Lachmann Mosse del 1978, già autore qualche anno prima de La nazionalizzazione delle masse e l’Intervista sul nazismo, tra i titoli più importanti della storiografia del secondo dopoguerra. E così si riprendono de Gobineau, Wagner e suo genero, le nuove teorizzazioni linguistiche con l’introduzione dell’idea che la lingua tedesca non sia una derivazione, come tutte, dall’ebraico, ma abbia una storia a sé e venga dall’indoeuropeo. Si ripercorrono le tappe di quello che Mosse aveva chiamato “Cristianesimo infetto” quello sradicamento della religione cristiana e del messaggio cristiano dall’ebraismo e da quel contesto culturale, e passano in secondo piano il Vecchio Testamento e ancora di più il Talmud, che August Rohling (sacerdote e docente di teologia) nel suo L’ebreo talmudista giudica il testo sacro un “breviario anticristiano” dove i cristiani sono mal visti e considerati inferiori. Ciò incontra anche un antigiudaismo diffuso tra la popolazione europea sin dal medioevo che vede gli ebrei accusati di omicidio rituale, ovvero di rapimenti di giovani cristiani da usare nei loro riti. E l’idea di un ebreo che usa il sangue del cristiano europeo per i propri fini dura fino al Protocollo dei savi di Sion (1905 giudicato successivamente un falso) e al Mein Kanpf di Adolf Hitler (1924), ma il tutto acquista un significato poco religioso e molto economico e politico, poiché in tempo di crisi per Germania – prima sconfitta nella seconda guerra mondiale, poi per la crisi economica del 29 – poco importa di chi abbia ucciso Cristo (altra accusa rivolta agli ebrei dai cristiani era quella del deicidio), ma molto di più che vuole congiurare contro la propria nazione e contro la propria integrità (l’ebreo vampiro, l’ebreo che violenta la giovane vergine tedesca, l’ebreo che insozza il sacro sangue del Volk).
Ma la Germania a cavallo tra i due secoli è un’epoca di forti contraddizioni. Otto Weiniger, giovane filosofo suicidatosi nel 1903 a 23 anni, aveva già pubblicato il suo Sesso e carattere “opera scientifica sperimentale” dove teorizza l’inferiorità della donna e dell’ebreo, o meglio, della “qualità femminile” e di quella ebraica. E lui era ebreo.
Questi aspetti del clima in cui si è formato il nazismo sono esposti di pari passo alla nascita del sionismo e delle alyiot (salita, verso Gerusalemme) in Palestina di ebrei che fuggono dai pogrom soprattutto della Russia zarista, anche perché gli ebrei erano stati e saranno socialisti e quindi mal visti dal potere che scatena contro di loro l’odio popolare che li vede come fonte di ogni male, e l’immagine di ebreo comunista e sobillatore viene usata un po’ ovunque quando bisogna tenerli lontani. E tra le persone che fuggono, in questo caso dalla Polonia, c’è anche Ben- Gurion fondatore e primo ministro dello stato d’Israele. E infatti, dopo aver affrontato la tragedia della Shoah, si cerca di capire quale fosse la condizione degli ebrei sopravvissuti in Europa (e possiamo riferirci ai displaced persons) e di quelli che sono nel “focolaio nazionale”, Yishuv (insediamento), in Palestina e ripercorrendo tutte le fasi dell’insediamento: mandato britannico e libri bianchi, l’emiro Faysal che combatte al fianco di Lawrence d’Arabia, l’inizio dei conflitti arabo-palestinesi e la nascita dei gruppi armati israeliani. E poi lo stato nel 1948 e nuovi conflitti.
Nel 1945 c’è il processo di Norimberga che porta all’introduzione di novità nella giurisprudenza internazionale come l’accusa di “crimini contro l’umanità” che purtroppo abbiamo continuato a sentire durante il nostro secolo. Tra gli anni 50 e gli anni 60 nasce il “culto della vittima” e la necessità continua di ricordare che porta a un eccesso di memoria. E ciò coincide in particolare con il diffondersi di documentari (Nuit et brouillard di Alain Resnais del 1955 e soprattutto Shoah di Carl Lanzmann del 1985), opere letterarie (Se questo è un uomo di Primo Levi che prima passa inosservato e viene pubblicato con successo da Einaudi solo alla fine degli anni ’50 ovvero quando si erano creati i presupposti editoriali e culturali perché ciò potesse avvenire o come La notte di Elie Weisel sempre della fine anni ’50 scritto prima in Yiddish poi in francese), interviste e testimonianze di sopravvissuti.
Alla fine ci si chiede chi sono oggi gli ebrei. Per semplificare, (la Foa ovviamente ce ne parla a inizio libro) gli ebrei della diaspora del 70 d.C., dopo la distruzione del tempio si dividono in tre grandi gruppi: Ashkenaziti (ebrei di cultura tedesca), Yiddish (ebrei dell’est che parlano questa lingua) e Sefarditi (gli ebrei di Spagna), ma ad esempio in Italia ci sono comunque ebrei che non appartengono prettamente a uno di questi gruppi e ebrei di culto sefardita. Un popolo che nella sua diversità interna, perché sempre confrontatosi con le culture dei paesi in cui si trovava a vivere, è sempre stato culturalmente vivo. E che non solo è stato, prima della Shoah, ma continua a esserlo.