Bruna
di Annamaria Cielo
Trento 2010
Questo romanzo di Annamaria Cielo, scrittrice trentina attiva anche in poesia, non è soltanto una saga familiare lunga tre generazioni; è la storia di una genealogia femminile che attraversa gran parte del ventesimo secolo e ne riassume le energie, le contraddizioni, le conquiste e la cadute. Bruna, sua madre Eleonora e sua figlia Mariaeva, alter ego dell’autrice, sono tre donne carismatiche accomunate da un destino di responsabilità, intesa letteralmente come la risposta a una chiamata della vita. Il loro carisma, pur nella diversità delle vicende, consiste nel portar pace attorno a sé e unità fra i propri cari, anche nei momenti di difficoltà. Come scrive l’autrice riferendosi alla capostipite di questa genealogia
«è destino che le persone sagge muoiano quando il loro dovere è compiuto» (pag.43).
E di saggezza, intrisa di una sensibilità senza cui la sola ragione è un campo di grano sterile, parla ogni pagina di questo libro. Il matrimonio di Bruna, avvenuto in età già matura e dopo una vita vissuta all’insegna di lutti e separazioni, la porterà a trasferirsi dalla casa natale a Vicenza alla residenza del marito Rino, proprietario di un fiorente pastificio a Rovereto. Un’ unione destinale, annunciata (come varie altre vicende anche drammatiche del libro) da una capacità di premonizione capace di passare come eredità spirituale di madre in figlia. La sua forza di carattere trarrà nutrimento dall’ amore per lo sposo e per la figlia, frutto di una maternità ormai insperata; essa sosterrà la casa nei momenti più bui, quando le condizioni finanziarie volgeranno ormai al declino. Ma la vicenda, pur appassionante, non basterebbe a fare di questo un libro speciale. E’ la tecnica narrativa a distinguerlo, che definirei composta da microflussi di coscienza: brevi spot in cui l’autrice fa parlare i luoghi stessi, i loro affetti e il loro mistero, in una sorta di memoriale inconsapevole che mi ha ricordato certi passi di Clarice Linspector; oppure, passando al mondo delle fiabe, l’indimenticabile prosopopea degli oggetti domestici nell’adattamento cinematografico della Bella e la bestia . La scelta editoriale di suddividere i capitoli in brevi passi con la parola iniziale evidenziata in maiuscoletto non pare casuale ed è in ogni caso felicissima, perché sembra seguire da vicino il rapporto frammentario della coscienza con la memoria.
Anche la focalizzazione è particolare: non un semplice avvicendamento o giustapposizione del punto di vista, come peraltro avviene in parecchi grandi narratori dell’ultimo Novecento (da Pamuk a Houellebecq e Kundera ), ma una progressione sofferta dell’io narrante. Mariaeva – attesa, bambina, adolescente e infine donna - è raccontata dalla terza persona della semplice datità “gettata” nel mondo, come la chiamerebbe Heidegger, alla prima persona della coscienza in fieri e infine matura. Il passaggio da un punto di vista all'altro rivela la doppia natura di questo libro, che oltre ad essere un romanzo familiare è anche un romanzo autobiografico di formazione. Il punto di transizione avviene in maniera del tutto simile alla vita: è l’esplosione di gioia della nascita, narrata in una bellissima pagina che passa nel libro come una cometa.
«La bambina si chiama Mariaeva […..] Ecco il mio capolavoro. Disse loro, sollevandomi in alto» (pag. 88-89) .
Ma il punto di vista che prevale è quello di Bruna, che in più passi viene chiamata semplicemente “la madre”, nelle sue luci ed ombre, nei silenzi, nella pazienza dei lutti e degli addii : un sogno premonitore materno apre il libro e un sogno premonitore della figlia lo chiude. Entrambe le visioni alludono ad oggetti scomparsi e ritrovati, concreti ma anche di forte richiamo simbolico, quasi ad alludere alla capacità di tenuta e di salvifica prescienza dell’animo femminile. Aggiungerei che in più passi, pur nell’asciuttezza della narrazione, l’autrice non può fare a meno di rivelarsi poeta, come in questo:
«La casa era sola.I cani lupo mi vennero incontro.I fiori del giardino attiravano le api.L’erba era secca come i fiammiferi.Ho attraversato il grande cortile, più piccolo della mia pena.». (pag. 169).
Alessandra Paganardi
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