Folle estate
di Giulio Pinto
Albatros, 2011
pp.361
€ 19,50.
Una folle estate del 1997, d’amore e d’avventura, vissuta da Samuele, poliziotto non proprio integerrimo, e Silvia, professoressa di materie umanistiche ancor meno integerrima. Scritta da un giovane autore che guarda ai suoi personaggi, alle vicende narrate e ai vari ambienti in cui si svolgono con fare fin troppo disinvolto e scanzonato. Tutto il romanzo è all’insegna della convivialità e del movimento, i personaggi non sono quasi mai soli e quasi mai fermi. I luoghi delle loro avventure scandiscono la partizione in capitoli: Bologna, dove Samuele è di stanza come tutore dell’ordine e Silvia insegna e gestisce scuole private tutt’altro che rigorose; la riviera romagnola, dove i due vanno in vacanza, inseguiti dalle preoccupazioni che le rispettive professioni procurano loro (Samuele è appena uscito indenne, ma molto scosso, da uno scontro a fuoco con i responsabili di un rapimento, mentre Silvia, nonostante gli inghippi e le illegalità, non è ancora certa che le sue classi maturande riescano a fare un buon esame di maturità); l’entroterra e la riviera marchigiana, dove i due, liberati dai cattivi pensieri (i rapitori sono stati consegnati alla giustizia e i maturandi tutti promossi), possono abbandonarsi liberamente all’amore e alle avventure che la sorte offre loro (tra cui il ritrovamento di una statua antica che, rivenduta clandestinamente, frutta loro una più che discreta sommetta); Milano, dove Silvia tiene i suoi cavalli da corsa, uno dei quali vince inaspettatamente un importantissimo e ricco Gran Premio. Nel loro peregrinare, Silvia e Samuele incontrano personaggi più o meno eccentrici, storie e storielle molto singolari, alcune le vivono in prima persone, altre se le sentono raccontare durante i numerosissimi pranzi, cene, aperitivi con parenti e amici. Sullo sfondo si intravvedono e si discutono anche fatti più importanti – la vicenda della Uno bianca, il caso Moro, la corruzione delle gerarchie ecclesiastiche, ecc – che, però, non elevano la tensione etica del romanzo, che vuole sempre mantenersi leggero, sbarazzino, irriverente. Le avventure sono spesso ai limiti della congruità e della plausibilità e hanno la caratteristica di non incidere nel profondo dei personaggi che le vivono o le sentono raccontare facendole scivolare sull’epidermide, titubando, a volte, sulle conseguenze morali o legali dei loro gesti e scegliendo sempre, alla fine, la via più comoda, più divertente e, soprattutto, più lucrosa. Su tutto aleggia una deliberata adesione al relativismo etico che sembra pericolosamente sovrapporsi all’indifferenza etica, ad una sorta di deresponsabilizzazione individuale, sulla quale il lettore ha tutto il diritto di non consentire.
Tutto lo snodo narrativo è affidato ai dialoghi tra i personaggi, il narratore in terza persona ha solo la funzione di connetterli e contestualizzarli. Ecco, la novità più curiosa del romanzo sta proprio nella capacità di affidare al discorso diretto dei personaggi lo sviluppo delle vicende, mentre la voce del narratore si attesta ad un livello intellettuale di molto al di sotto dei suoi stessi personaggi, con inserzioni del tipo
Una folle estate del 1997, d’amore e d’avventura, vissuta da Samuele, poliziotto non proprio integerrimo, e Silvia, professoressa di materie umanistiche ancor meno integerrima. Scritta da un giovane autore che guarda ai suoi personaggi, alle vicende narrate e ai vari ambienti in cui si svolgono con fare fin troppo disinvolto e scanzonato. Tutto il romanzo è all’insegna della convivialità e del movimento, i personaggi non sono quasi mai soli e quasi mai fermi. I luoghi delle loro avventure scandiscono la partizione in capitoli: Bologna, dove Samuele è di stanza come tutore dell’ordine e Silvia insegna e gestisce scuole private tutt’altro che rigorose; la riviera romagnola, dove i due vanno in vacanza, inseguiti dalle preoccupazioni che le rispettive professioni procurano loro (Samuele è appena uscito indenne, ma molto scosso, da uno scontro a fuoco con i responsabili di un rapimento, mentre Silvia, nonostante gli inghippi e le illegalità, non è ancora certa che le sue classi maturande riescano a fare un buon esame di maturità); l’entroterra e la riviera marchigiana, dove i due, liberati dai cattivi pensieri (i rapitori sono stati consegnati alla giustizia e i maturandi tutti promossi), possono abbandonarsi liberamente all’amore e alle avventure che la sorte offre loro (tra cui il ritrovamento di una statua antica che, rivenduta clandestinamente, frutta loro una più che discreta sommetta); Milano, dove Silvia tiene i suoi cavalli da corsa, uno dei quali vince inaspettatamente un importantissimo e ricco Gran Premio. Nel loro peregrinare, Silvia e Samuele incontrano personaggi più o meno eccentrici, storie e storielle molto singolari, alcune le vivono in prima persone, altre se le sentono raccontare durante i numerosissimi pranzi, cene, aperitivi con parenti e amici. Sullo sfondo si intravvedono e si discutono anche fatti più importanti – la vicenda della Uno bianca, il caso Moro, la corruzione delle gerarchie ecclesiastiche, ecc – che, però, non elevano la tensione etica del romanzo, che vuole sempre mantenersi leggero, sbarazzino, irriverente. Le avventure sono spesso ai limiti della congruità e della plausibilità e hanno la caratteristica di non incidere nel profondo dei personaggi che le vivono o le sentono raccontare facendole scivolare sull’epidermide, titubando, a volte, sulle conseguenze morali o legali dei loro gesti e scegliendo sempre, alla fine, la via più comoda, più divertente e, soprattutto, più lucrosa. Su tutto aleggia una deliberata adesione al relativismo etico che sembra pericolosamente sovrapporsi all’indifferenza etica, ad una sorta di deresponsabilizzazione individuale, sulla quale il lettore ha tutto il diritto di non consentire.
Tutto lo snodo narrativo è affidato ai dialoghi tra i personaggi, il narratore in terza persona ha solo la funzione di connetterli e contestualizzarli. Ecco, la novità più curiosa del romanzo sta proprio nella capacità di affidare al discorso diretto dei personaggi lo sviluppo delle vicende, mentre la voce del narratore si attesta ad un livello intellettuale di molto al di sotto dei suoi stessi personaggi, con inserzioni del tipo
Micia era originaria di Giava, isola dove si balla, si canta e si chiava.
Così, mentre la voce diretta dei personaggi mantiene quasi sempre una sua consistenza e verosimiglianza, quella dell’autore scade spesso ad un livello tanto insulso da sembrare quella di un adolescente patito di fumetti più o meno licenziosi che racconta avidamente ad un pubblico suo pari tutto quello che ha sentito raccontare sulla polizia, sull’ippica, sulle truffe, sulla cronaca e sulla Storia dell’ultimo decennio del Novecento. La consistenza dei dialoghi e la freschezza primigenia dell’autore forse non bastano a vincere le perplessità che questo romanzo suscita, ma, insomma, potrebbero essere una buona base di partenza per opere future.
Paolo Mantioni