L'appuntamento odierno con le "Pillole d'autore" vi porta nella poesia di Fabio Pusterla, una delle voci poetiche italiane più interessanti degli ultimi decenni. Classe 1957, è nato a Mondrisio: le origini ticinesi segnano significativamente la sua produzione, marcata da quel gusto per il paesaggio e per la quotidianità e gli oggetti abituali che tanto fanno pensare a Orelli e a Sereni. Alla poesia del Secondo Novecento e, in particolare, a Sereni si riaggancia la tematica del dialogo - ora negato ora affermato - con i morti e gli assenti, ben visibile nei testi tratti da Bocksten che vi proponiamo. Altro tratto da sottolineare, è la riflessione metalinguistica, che si interroga più volte sul valore del linguaggio nella comunicazione, complessa e perlopiù irrealizzabile. Un intento di denuncia porta molte liriche nel campo della poesia civile, così bistrattata negli ultimi anni. Tuttavia, nella puntata odierna si è preferito dedicarsi alla poesia esistenziale e intimistica, privata ma anche ampiamente condivisibile.
Ricordiamo che Fabio Pusterla, già insignito di preziosi premi come il Montale (1986), Keller nel 2007, il Dessì (2009), il Lionello Fiumi (2008), nel 2011 ha vinto anche lo Schiller (dopo averlo già ricevuto nel 1986 e nel 2000).
Marcos y Marcos, editore che da anni pubblica Pusterla, nel 2010 ha portato nelle librerie anche l'ultima raccolta, Corpo stellare.
(Edizione di riferimento: Fabio Pusterla, Le terre emerse. Poesie scelte 1985-2008, Giulio Einaudi Editore, Torino 2009)
Da Concessione all'inverno (1985)
Al doganiere
Al doganiere dichiaro
una scatola d'ovomaltina,
frutta secca, piselli sottovuoto;
a mio modo solenne, poi,
due bottiglie di vino.
Taccio invece di te, della tua foto
nascosta fra i documenti.
Annuisce contento:
mi crede sano.
Lettera da Tinizong
Niente d'eroico in questo esilioDa Bocksten (1989):
casuale. Il marinaio ricorda
lo stacco della nave dal pontile,
le musiche d'addio, gli ultimi spari
del cannone di terra? Io no,
io non so dove, quando la partenza
(se partenza c'è stata); da qualche parte
s'intuisce ci dev'essere un errore
- mio o d'altri non importa - un'imprevista
smagliatura, un sasso fuori posto.
Né basta dire che adesso (quando?) qui (dove?)
si aprono inconsuete visuali, angoli acuti
di realtà (e in tanto sfugge il resto del cerchio).
La disfunzione è altra, è nei vapori
che velano le cose, confondono le case
le chiese le chiuse; e chi sa più se l'inaudito
tumefarsi dei volti, e l'appiattirsi
e l'inarcarsi dei monti, e il beccheggiare
dei ponti siano segnali veri, tracce forse
di un mondo altro, sottostante,
che irrompe a tratti violento,
o fantasmi neppure ipotizzabili?
L'esilio comunque è in questo
non essere intero mai, non esistente del tutto
nell'istante, e sempre distante
dal vero.
Se potessi scegliere un gesto, un luogo e un'ora,
l'ora sarebbe una sera d'aria tersa
e il luogo sarebbe un luogo come tanti:
una baracca in curva,
una pausa appena accennata di qualcosa,
calda bassa e fumosa,
dove seduto a un tavolo, toccando
una spalla, una mano o un bicchiere,
prenderei tempo prima di alzarmi
a seguire qualche sconosciuto fuori.
E poi qualcuno va, tutto è più vuoto.
Se ci ritroveremo, sarà per non conoscerci,
diversi nei millenni, nella storia
faticosa di tutti; e intanto arretrano
i ghiacciai, s'inghiotte il mare
lo stretto, ed il passaggio
è già troppo profondo, impronunciabile,
sepolto nel passato il tuo viaggio. Se ci ritroveremo
non ci sarà memoria per me, insetto,
per te, fatto farfalla tropicale.
D'altra parte, lo sai, non ci vedremo
più. Nessun colombo verrà, nessuna pista
a ricucire lo strappo, la deriva
di morte.
Da Pietra sangue (1999):
Il poeta nel proprio luogo natio
Eccoci ancora alle tue strade petrose
di fumo e crudeltà, nostro non luogo,
non nome, non memoria: percorriamo
di te ogni infamia, e tutto è come prima,
vedtro dov'era sasso, nuovi emblemi
e miserie
ma identica
l'ombra che assale. "Ciao Alessandro"
dico a uno che passa e conosco;
ma sbaglio, si chiama Maurizio;
e poi un altro mi ferma, mi grida
di andar via che è un paese di morti.
Ma era qui il mondo, in un retrobottega
o tra i vicoli, l'effluvio
di orina e soldi, legname. Sui binari
si mettevano sogni e monetine
di rame perché il treno lo schiacciasse.
Da Folla sommersa (2004):
Dopo trent'anni
Ti seguo da trent'anni mentre vaghi cercando
non sai nemmeno cosa. Sono la luce
di un'esplosione lontana, il tuo sole di ghiaccio,
due occhi spalancati sulla magrezza di un male
che apriva certe porte, o prospettive di fuga.
Diversamente: era questo l'indizio,
la rifrazione del mio raggio sulla superficie del mondo.
Voleva dire distruggere,
frugare tra gli scarti. Spossessarsi.
Voleva dire camminare con gli occhi bendati.
Ti seguo da trent'anni alta come un rapace
con il mio becco duro di nibbio, la mia vista
che sa distinguere un topolino fra le rocce
o la tua traccia barcollante sui sentieri.
Ero nei sogni che non potevi ricordare.
Ero un grido prima dell'alba, una porta chiusa,
uno zigomo che affiora sulla pelle. Il volto folle di un uomo
impiastricciato di sugo, pulsante. Ero il bagliore
di una vallata percorsa da un fiume, luccicante di fuochi.
Ero un tumore e una stella.
E non potevi guardarmi: accecavo,
Adesso, guarda. Guarda il tronco
contorto di questi ulivi che si annodano
al terreno sassoso. Guarda il mare e la costa
incisa, e il vento scuotere
ogni ramo. E' la mia ala,
non medica, ti porta, ti sostiene.
Fa quasi giorno, e un'ombra, al tua ombra
striscia tra i rampicanti e le prime formiche. Solo un'ombra,
il poco che resta. La tua luce a rovescio.
Sono qui, per un istante posata: a rincuorarti
e a toglierti ogni speranza. Non c'è pace
nel corso delle cose e dei corpi, ma una pace
diversa brilla ovunque e ci chiama. Se vibra
sopra l'acqua o sull'erba il soffio lieve
del tempo: ecco steli dispersi, sradicati, ed ecco il turbine
leggero delle foglie che s'infiammano
e svaniscono. Guardami pure, adesso, non abbaglio.
Abbandonarsi e resistere, due fasi
identiche del sangue e del respiro, dell'inchiostro
e del foglio, come sai. Cammina, scrivi.