Conosciamo tutti Marguerite Yourcenar (1903-1987), francese di origine belga, per il suo grande capolavoro: il romanzo Memorie di Adriano (1951). Con esso ha consegnato alla storia letteraria un autoritratto spirituale - al contempo imponente e cesellato, ma dotato, soprattutto, di struggente intensità - del grande imperatore Adriano, membro della dinastia degli Antonini e di un'epoca in cui la romanità comincia a presagire l'insorgere della propria decadenza. Tributo all'amore per la lingua e la civiltà greca, Memorie di Adriano è la punta di diamante di una ricca e variegata produzione letteraria, che trae ispirazione dalla profondissima cultura della Yourcenar (precoce traduttrice di Virginia Woolf, comparatista e acuto critico letterario) e dalla sua altrettanto profonda sensibilità (basta scorrere i suoi dati biografici: inesausta viaggiatrice, innamorata dell'Italia, esploratrice di luoghi selvaggi e solitari, eremita della letteratura e ultima grande aristocratica della narrativa francofona).
Feux (1936), l'opera da cui abbiamo scelto i passi che seguono, è probabilmente la più rarefatta e insieme autobiografica della Yourcenar. Ma come per il suo più grande e indimenticabile personaggio, Hadrièn, l'io frantumato e molteplice di Fuochi è iperstorico e iperletterario, riflette su se stesso e sull'amore come un oracolo che cerca di spiegare una profezia dopo che questa si è avverata, come un Giovanni che vuole interpretare i segni dell'Apocalisse dopo che questa ha ormai cancellato il mondo e la storia. L'amore si codifica e, codificandosi, parla oltre il tempo e lo spazio. La "crisi passionale" (così in Prefazione) che ispirò l'opera si trova quindi trasfigurata: ascoltiamo i monologhi di Fedra, di Antigone, di Maria Maddalena, di Clitennestra, di Saffo, ma, come nei Dialoghi con Leucò di Pavese - opera pubblicata dodici anni dopo, in tutt'altro contesto letterario, ma come affratellata da una spiritualità comune e da un comune dolore - le parole si sottraggono al narrativo e al contingente. L'edizione italiana (Bompiani, 1986) ha anche un valore aggiunto: la Yourcenar ha avuto una traduttrice del calibro di Maria Luisa Spaziani. Sarà prosa lirica, o prosa d'arte che dir si voglia, ma della miglior specie.
Feux (1936), l'opera da cui abbiamo scelto i passi che seguono, è probabilmente la più rarefatta e insieme autobiografica della Yourcenar. Ma come per il suo più grande e indimenticabile personaggio, Hadrièn, l'io frantumato e molteplice di Fuochi è iperstorico e iperletterario, riflette su se stesso e sull'amore come un oracolo che cerca di spiegare una profezia dopo che questa si è avverata, come un Giovanni che vuole interpretare i segni dell'Apocalisse dopo che questa ha ormai cancellato il mondo e la storia. L'amore si codifica e, codificandosi, parla oltre il tempo e lo spazio. La "crisi passionale" (così in Prefazione) che ispirò l'opera si trova quindi trasfigurata: ascoltiamo i monologhi di Fedra, di Antigone, di Maria Maddalena, di Clitennestra, di Saffo, ma, come nei Dialoghi con Leucò di Pavese - opera pubblicata dodici anni dopo, in tutt'altro contesto letterario, ma come affratellata da una spiritualità comune e da un comune dolore - le parole si sottraggono al narrativo e al contingente. L'edizione italiana (Bompiani, 1986) ha anche un valore aggiunto: la Yourcenar ha avuto una traduttrice del calibro di Maria Luisa Spaziani. Sarà prosa lirica, o prosa d'arte che dir si voglia, ma della miglior specie.
Non darsi più, è darsi ancora. Significa dare il proprio sacrificio.
Nulla di più improprio dell'amor proprio.
Il delitto del pazzo è quello di preferirsi. Quest'empia preferenza mi ripugna in quelli che uccidono e mi spaventa in quelli che amano. La creatura amata non è più, per quel genere di avari, che una moneta d'oro su cui artigliare le dita. Non è più di un dio: è appena una cosa. Mi rifiuto di fare di te un oggetto, quand'anche fosse l'Oggetto Amato.
L'unico orrore è di non servire. Fai di me ciò che vorrai, uno schermo magari, magari del metallo buon conduttore. Tu potresti sprofondare in blocco in quel nulla dove scompaiono i morti: io mi consolerei se tu mi lasciassi l'eredità delle tue mani. Soltanto le tue mani sopravvivrebbero, scisse da te, inesplicabili come quelle degli dei di marmo diventati polvere e calce della loro stessa tomba. Sopravvivrebbero ai tuoi atti, ai corpi miserabili che hanno accarezzato. Non servirebbero più da intermediarie fra le cose e te: sarebbero mutate loro stesse in cose. Ridiventate innocenti, dal momento che non ci saresti più tu a farle tue complici, tristi come levrieri senza padrone sconcertate, come arcangeli a cui nessun dio dirami più ordini, le tue mani inutili riposerebbero sulle ginocchia delle tenebre. Le tue mani aperte, incapaci di dare o di prendere una gioia qualsivoglia, mi avrebbero lasciata cadere come una bambola rotta. Io bacio, all'altezza del polso, quelle mani indifferenti che la tua volontà non scosta più dalle mie; accarezzo l'arteria azzurra, quella colonna di sangue che un tempo sorgeva incessante come lo zampillo di una fontana dal suolo del tuo cuore. Con brevi singhiozzi soddisfatti io abbandono il capo come nell'infanzia fra quelle palme piene di stelle, di croci, di precipizi di ciò che fu il mio destino.
Non ho paura degli spettri. I vivi sono terribili soltanto perché hanno un corpo.
Non esistono amori sterili. Le precauzioni non servono a niente. Quando ti lascio, il dolore sta al fondo del mio essere come una specie di orribile figlio.
Ho conosciuto dei giovani che venivano dal mondo degli dei. I loro gesti facevano pensare alle traiettorie degli astri; non ci si stupiva che il loro duro cuore di porfido fosse insensibile; se tendevano la mano, la rapacità di quei mendicanti squisiti era un vizio da dei. Come tutti gli dei, rivelavano inquietanti parentele con i lupi, gli sciacalli, le vipere: ghigliottinati, avrebbero assunto l'aspetto livido dei marmi decapitati. Certe donne, certe fanciulle provengono dal mondo delle Madonne: le peggiori allattano la speranza come un figlio promesso alle crocifissioni future. Alcuni miei amici provengono dal mondo dei saggi, da una sorta di India o di Cina interiore: l'universo intorno a loro si dissipa in fumo, accanto a quei freddi stagni in cui si rispecchia l'immagine delle cose, gli incubi si aggirano come tigri addomesticate. Amore, mio duro idolo, le tue braccia tese verso di me sono vertebre di ali. Ho fatto di te la mia Virtù; in te accetto di vedere una Dominazione una Potenza. Mi affido a quel terribile aereo alimentato da un cuore. La sera, in quegli antri malfamati dove ci trascinavamo insieme, il tuo corpo nudo sembra un Angelo incaricato di vegliare sulla tua anima.
Mio Dio, rimetto il mio corpo fra le tue mani.
Si dice: pazzo di gioia. Si dovrebbe dire: savio di dolore.
Possedere è l'equivalente di conoscere: la Scrittura ha sempre ragione. L'amore è stregone: sa i segreti, è rabdomante, sa le sorgenti. L'indifferenza è guercia, l'odio è cieco; incespicano a fianco a fianco nel fossato del disprezzo. L'indifferenza ignora; l'amore sa; va compitando la carne. Bisogna godere di una creatura per aver l'occasione di contemplarla nuda. Ho dovuto amarti per capire che la peggiore o la più mediocre delle persone umane è degna di ispirare lassù l'eterno sacrificio di Dio.
Sei giorni fa, sei mesi fa, erano sei anni allora, e fra dieci secoli... Ah! morire per fermare il Tempo...
L'amore è un castigo. Veniamo puniti per non essere riusciti a rimanere soli.
Bisogna amare un essere per correre il rischio di soffrire per lui. Bisogna amarti molto per rimanere capace di soffrirti.
Non posso impedirmi di vedere nel mio amore una forma raffinata di dissolutezza, uno stratagemma per passare il tempo, per negare il Tempo. Il piacere compie in pieno cielo un atterraggio forzato, nel folle stridore meccanico degli ultimi sussulti del cuore. In volo planato, vi sale la preghiera; l'anima vi trascina
il corpo nell'assunzione dell'amore. Perché sia possibile un'assunzione, ci vuole un Dio. Tu hai quello che ci vuole di bellezza, di accecamento e di esigenze per sembrare un Onnipotente. In mancanza di meglio, ho fatto di te la chiave di volta del mio universo.
Ho ritrovato il vero senso delle metafore dei poeti. Mi sveglio ogni notte nell'incendio del mio stesso sangue.
introduzione e selezione di Laura Ingallinella