Questo bacio vada al mondo intero
di Colum McCann
Rizzoli, Milano 2010
Traduzione di M. Magrì
€ 21
pp. 456
Contrariamente alle numerose critiche che hanno accompagnato
lo scorso anno l’uscita del libro per la scelta del titolo dell’edizione
italiana, ammetto che è stato proprio quel verso di Schiller tratto dalla
raccolta “Inno alla gioia” a catturare la mia attenzione verso questo romanzo.
Il titolo originale era ovviamente alquanto poetico e significativo, “Let the
great world spin” che potremmo tradurre con “lascia che il mondo giri in vortici
infiniti”, un verso bellissimo e assolutamente perfetto, ma nonostante la
tendenza a modificare i titoli originali di libri e film (spesso con scelte che
poco o nulla hanno a che vedere con l’oggetto in questione) sia una prassi che
aborro, in questo caso almeno per la sottoscritta è stato uno stimolo ulteriore
ad avvicinarmi a questo romanzo, di cui a ridosso dell’uscita si leggevano
critiche entusiaste e l’attesa era piuttosto palpabile.
Il suo autore, Colum MacCann, irlandese fino al midollo
trapiantato a New York, aveva già all’attivo una serie di pubblicazioni di
successo, tanto da valergli il titolo di “uno
dei più importanti scrittori contemporanei di lingua inglese”. Ma è sicuramente questo il romanzo della sua
consacrazione: splendidamente costruito nell’alternanza di voci, stile
narrativo e storie, ognuna di esse intrisa di profonda sofferenza, legate tra loro letteralmente da
un filo. Un filo, o meglio un cavo, che la mattina del 7 agosto 1974 tiene
centinaia di newyorkesi con lo sguardo rivolto verso il cielo a quello spazio
che appare infinito tra le due torri del World Trade Center in cui un uomo,
piccolo e alquanto bizzarro, stava tentando un’impresa folle e per molti priva
di alcun senso. Philippe Petit, funambolo francese autodidatta che quel giorno
d’estate sfida sé stesso, i limiti fisici e del consentito, per compiere una
spettacolare passeggiata nel vuoto del cielo di New York, tra quei due
grattacieli il cui vuoto oggi pesa come un macigno. È quindi anche un romanzo
sull’11 settembre, pur senza parlarne mai apertamente (così come in effetti non
si cita mai apertamente neppure Petit), ma a cui è impossibile non pensare
rivedendo le immagini di quell’impresa, le due torri che si stagliano nel cielo
e che in fondo serve anche a farle rivivere seppur per un attimo illusorio.
Come afferma lo stesso MacCann in una bellissima intervista concessa a Vanity
Fair in occasione del Festivaletteratura di Mantova dello scorso anno,
“Ha salvato la nostra memoria, anche se ancora non lo sapeva”,
Il romanzo corale di MacCann quindi parte proprio da qui,
dalle reazioni diverse che quel gesto suscita nei passanti ignari, per gettare
uno sguardo nelle vite umili, segnate dal dolore e dalla malinconia e tutte in
qualche modo seppur nelle loro differenze legate tra loro dalla vita, dal
destino, dalla storia personale. Un piccolo spaccato di mondo, neanche lontanamente
luccicante e perfetto, ma proprio per questo ancor più reale e sempre pieno di
speranza, un sentimento che è in fondo lo spirito di tutto il romanzo, non solo
atteggiamento dell’animo bensì dovere, esigenza.
Uomini e donne qualunque, che ogni giorno vanno avanti
lottando contro le ferite che la vita ha loro inferto, eppure non del tutto
sconfitti, non del tutto vinti.
C’è lo splendido ritratto di Claire madre inconsolabile
nella sua bella casa dell’Upper East Side per quel figlio morto sotto le bombe
in Vietnam, la sua stanza esattamente identica a come lui l’ha lasciata tanto
tempo prima, gli incubi nella notte quando il volto di quel bambino spaventato
chiede aiuto, il pudore nel mostrare la sofferenza e la fragilità allo stesso
modo del timore del giudizio per il benessere in cui vive.
Gloria, discendente di schiavi, che come Claire piange il
figlio morto così lontano da casa, giunta quel giorno per la prima volta nell’elegante
dimora a Park Avenue insieme al gruppo di sostegno che periodicamente si
riunisce per condividere il dolore e provare ad accettarlo. Con i suoi modi
materni e diretti, forse un po’ stereotipati ma egualmente intensi, capace solo
lei unica nera fra tutte a capire davvero il silenzio imbarazzato di Claire.
Ma c’è anche chi dall’agio e dalla famiglia ha deciso di
scappare schiacciata da un talento precoce che consuma, la giovane Lara, che
nelle droghe cerca l’oblio.
Lontano dal lusso altre vite ed altre storie: il Bronx,
quello più crudele, popolato da prostitute e delinquenti, inferno in terra dove
Corrigan giunto dall’Irlanda cerca il Dio in quelle vite, in quella povertà, in
quella sofferenza. Perché è proprio lì, ne è convinto, la presenza del divino,
nelle vite di quelle donne nate per finire sui marciapiedi, dove
inevitabilmente le seguiranno anche le figlie. Spoglio di tutto, folle di
fronte al giovane fratello giunto dal paese natio che vorrebbe portarlo via da
tutto quel degrado, quella sofferenza. Ma in quale altro luogo dovrebbe stare
se non lì?
Personaggi veri, fatti di carne e sangue, che si muovono in
una New York lontanissima dal glamour e dai circoli intellettuali così cari
alla letteratura, per esplorarne le ferite, la sporcizia, la crudeltà e la
speranza, incrollabile, che è di tutti noi.
Un inno alla vita quindi e all’uomo, così inconsapevolmente
legato a quanti altri intorno a lui che per caso, per destino, per volontà
divina ne incrociano la strada. Con il naso all’insù, il respiro un po’
trattenuto, siamo tutti partecipi della stessa impresa.
Debora Lambruschini