di Evaldo Violo
a cura di Marco Vitale
Edizioni Unicopli, 2011
€ 14
Libro intervista a Evaldo Violo, per trent’anni direttore della BUR, oggi consulente della Nino Aragno Editore, Ah, la vecchia BUR!, mi è apparso, per varie ragioni, più stimolante e ricco di molti volumi di saggistica sulla storia dell’editoria. Prima tra tutte la forma. Violo, che ha vissuto il mondo editoriale da un’angolazione privilegiata e protagonistica, racconta quell’universo in maniera semplice, utilizzando termini ed espressioni che convincerebbero qualsiasi lettore a proseguire nella lettura. Racconta la sua esperienza senza porsi in cattedra, ma mostrando le mille dinamiche di un ingranaggio così complesso come è il mondo della produzione del libro e ce lo rende più vicino, tangibile. Usa un tono confidenziale, spesso ironico, una voce intima che spesso diverte, a tratti commuove il lettore. Alla sua parola fa da controcanto quella dell’intervistatore, Marco Vitale, traduttore letterario e poeta, collaboratore della BUR e “discepolo” di Violo. Tra i pregi del libro la sua capacità di non stancare mai il lettore, sollecitando continuamente la sua curiosità.
In secondo luogo, la scelta degli argomenti trattati appare ricca e allo stesso tempo molto omogeneamente organizzata. Nel corso della loro conversazione, Violo e Vitale, riescono a toccare, con poche battute, i problemi nevralgici dell’editoria del nostro tempo e a mostrare quelle che sono state le trasformazioni che hanno contribuito a modificarne la fisionomia. Operare nel mondo editoriale negli anni che vanno dal 1970 a oggi significa essere passati attraverso radicali cambiamenti: primo tra tutti il passaggio dalla figura dell’editore protagonista a un nuovo paradigma incentrato su aspetti economico-commerciali e sul modello della concentrazione editoriale. Tutto questo è avvenuto in concomitanza con gli sviluppi della società contemporanea in termini di massificazione, modelli economici, mutamenti nella concezione della proprietà intellettuale. Aspetti che non è facile valutare univocamente e che rendono necessaria un’analisi più attenta. Come scrive Ferretti: “tutto è cambiato con la concentrazione editoriale”. Le case editrici hanno perso molti dei tratti che formavano la loro identità editoriale (derivanti dalle figure degli editori protagonisti che catalizzavano e orientavano l’offerta e la linea della casa). Oggi questa identità, come senso di appartenenza, non esiste quasi più. Dalla fidelizzazione del lettore e dell’autore si è passati alla spersonalizzazione dei grandi gruppi. Non si punta più sulla strategia di collana ma i libri vengono fatti con logiche spesso stagionali, nonché puntando sui singoli titoli che devono diventare best-sellers. Dal 1985, con l’immissione di capitali extraeditoriali, nuove figure di proprietari e professionisti si sono fatte strada modificando gli equilibri esistenti fino a quel momento. Si è sancito definitivamente il passaggio a un’editoria manageriale.
Proprio all’alba di questi mutamenti storici importanti, nel 1973, alla Rizzoli si decide di puntare ancora su un tipo di collana che nel 1946 aveva rivoluzionato il modo di leggere degli italiani: la BUR. Proposta innovativa ma insieme un po’ nostalgica (“Ah, la vecchia BUR!”), per riportare il libro nelle case di tutti garantendo la qualità di testi curati, tradotti, corretti da intellettuali di primo piano. Scommettere ancora su una collana del genere significa promuovere un prodotto riconoscibile, fidelizzare il lettore e renderlo desideroso di possedere tutti i volumetti BUR, avere fiducia nel fatto che una produzione di qualità possa diventare, ancora una volta, una produzione da grande pubblico.
Quella di Violo è una “confessione”, una testimonianza viva di chi ama l’editoria profondamente e, proprio per questa ragione, non rinuncia a dare giudizi schietti, forti, senza però mai apparire parziale. Con un tono colloquiale, sa raccontarci di come lavoravano gli autori e i traduttori, dei rapporti con Manganelli, Ortese, Spagnol, Bianciardi, Aroldi, di come si sente un giovane redattore quando partecipa per la prima volta alla Fiera del Libro di Francoforte, di che emozione si prova nel vedere pubblicato il saggio su cui hai tanto lavorato e investito. È capace di trasmettere il senso dell’editoria come scommessa, come l’unica vera industria capace di dar vita a prodotti che non siano puramente materiali, ma abbiano anche un valore spirituale. E vien voglia di trovarsi nelle stanze del grande palazzo Rizzoli di Milano per veder passare Montale, con i giornali in mano, o la Fallaci che corregge i suoi libri, instancabile. E ne vien fuori una professione d’amore verso il mondo del libro, nonostante tutti i problemi e i cambiamenti che l’hanno un po’ snaturato, e soprattutto verso il libro in sé, come oggetto unico e privilegiato. Trasmette la speranza che esso resti tale anche presso le società del futuro. Per questo, il messaggio cruciale è affidato all’epigrafe di Giuseppe Pontiggia:
“Perciò la domanda che vorrei porre è questa. Chi è il folle? Chi brama di possedere sempre più libri o chi ne tiene la casa vuota come la propria testa?”.
A ribadire, ancora una volta, il valore della lettura come strumento essenziale di crescita di un popolo.
Claudia Consoli
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