di Philip Roth
Einaudi, 2003
Traduzione di V. Mantovani
pp. 113
.€ 13
Le donne, per gli uomini, sono davvero tanto incantevoli, una volta tolto il sesso? C’è qualcuno che trova incantevole un’altra persona di questo o di quel sesso se non nutre per lei un interesse di natura sessuale? Da chi, allora, ti fai incantare così? Da nessuno.
Sono i primi anni del Duemila, quelli che vedono l'ascesa sostanzialmente ineguagliata di Philip Roth agli occhi della critica e del pubblico. Un doppio plauso che non ha ancora portato al Nobel ma, si sa, premiazioni e radicamento nel panorama letterario non sono legati a doppio filo. Roth piace, e non solo per la sua Pastorale americana o per La macchia umana, resa ancor più celebre da un recente film (2003) di Robert Benton con Anthony Hopkins e Nicole Kidman. Roth piace nonostante - o forse proprio per - la carica passionale e cruda presente nei suoi testi. Cinismo erotico ed erotismo cinico: la sensualità più spinta perde il mantello trapunto di metafore, si denuda senza falsi pudori, dal momento che per Roth «in materia di sesso, è un tornare nella foresta» e, per quanto si operi un «tentativo di trasformare la lussuria in qualcosa di
socialmente conveniente, [...] è proprio la radicale sconvenienza che fa della
lussuria la lussuria».
Ed ecco che il protagonista David Kepesh (che tornerà poi nel racconto lungo Il seno del 2005), coerentemente con quanto asserito, è un professore universitario di letteratura senza remore sessuali, che fa del proprio carisma uno strumento per accordarsi la conoscenza intima delle sue ex-studentesse. La serialità delle conquiste si configura come riaffermazione di sé ma anche come potentissima fuga all'incubo sempre presente dell'invecchiamento e della morte (il tema è preannunciato, peraltro, dallo stesso titolo è tratto da una poesia di Yeats che Roth cita quasi alla fine del romanzo: «Consumami il cuore; malato di desiderio/ E avvinto a un animale morente/ che non sa cos’è»):
Disinibente e fortemente orientato alla vita, il sesso obnubila le paure dell'uomo, e le avvolge di feste di finecorso, ragazzine libertine, fantasie ammassate orgiasticamente,... La stessa routinaria corsa all'eros fino all'arrivo di Consuela Castillo, studentessa dall'aspetto ispanico, fortemente femminile, donna più che ragazza, dall'educazione tradizionale e rigida, ma non disinibita nell'abbandonarsi senza domande a una relazione più o meno nascosta con Kepesh. E il professore sperimenta la gelosia, la possessività, l'ansia di una perdita irrimediabile, perché sulla pelle di Consuelo, David prende atto del proprio invecchiamento e si misura con le orde di giovani che un giorno corteggeranno la donna. E di conseguenza non c'è possesso che dia conferme a Kepesh, né Consuelo, con il suo portamento altero e apparentemente insensibile, rassicura l'amante. Così Kepesh sperimenta la solitudine, ma anche la riflessione sull'amore, sul sesso e sul potere sconvolgente delle relazioni interpersonali:
Ed ecco che il protagonista David Kepesh (che tornerà poi nel racconto lungo Il seno del 2005), coerentemente con quanto asserito, è un professore universitario di letteratura senza remore sessuali, che fa del proprio carisma uno strumento per accordarsi la conoscenza intima delle sue ex-studentesse. La serialità delle conquiste si configura come riaffermazione di sé ma anche come potentissima fuga all'incubo sempre presente dell'invecchiamento e della morte (il tema è preannunciato, peraltro, dallo stesso titolo è tratto da una poesia di Yeats che Roth cita quasi alla fine del romanzo: «Consumami il cuore; malato di desiderio/ E avvinto a un animale morente/ che non sa cos’è»):
Il sesso non è semplice frizione e divertimento superficiale. Il sesso è anche la vendetta sulla morte. Non dimenticartela, la morte. Non dimenticarla mai. Sì, anche il sesso ha un potere limitato. So benissimo quanto è limitato. Ma dimmi, quale potere è più grande?
L’unica ossessione che vogliono tutti: l’ “amore”. Cosa crede, la gente, che basti innamorarsi per sentirsi completi? La platonica unione delle anime? Io la penso diversamente. Io credo che tu sia completo prima di cominciare. E l’amore ti spezza. Tu sei intero, e poi ti apri in due. Quella ragazza era un corpo estraneo introdotto nella tua interezza. E per un anno e mezzo tu hai lottato per incorporarlo. Ma non sarai mai intero finché non l’avrai espulso. O te ne sbarazzi o lo incorpori con l’autodistorsione. Ed è quello che hai fatto, che ti ha ridotto alla disperazione.
Controcorrente e forte, il rapporto tra i due protagonisti infiamma le pagine con pratiche sessuali di varia natura, pur senza finire nel pornografico gratuito. Così, ad esempio, l'asservimento totale di Kepesh che non solo gareggia con un passato amante di Consuelo, ma che vuole amare tutto della propria donna, compreso il suo mestruo, ha radici antichissime, legate alla quasi divinizzazione della riproduzione femminile.
E la morte, tradizionale compagna dell'eros - per antitesi o per ossimoro? sarebbe interessante rifletterci - si riaffaccia da ogni parte. Roth non è pacato neanche nel raccontare l'agonia, vivisezionata nei suoi componenti più putrescenti, nelle ipocrisie sociali e nelle trasformazioni impietose che la malattia porta. E così ci sono brividi di compassione, di dolore, e non mancano tratti toccanti per quella vena lirica che il narratore affida alle azioni stesse, senza speculazioni di sorta.
L'animale morente è un libro che tocca, percuote, schiaffeggia, e lascia poi un turbamento che non promette niente di buono. Cioè, promette di sedimentarsi, di farsi appannare dall'illusione della dimenticanza per poi tornare a farsi scoprire al minimo rimando intertestuale, a un richiamo della vita di ogni giorno. E sento che, riemergendo, porterà di nuovo con sé la forza dirompente (e scomoda) della rivelazione.
Gloria M. Ghioni
E la morte, tradizionale compagna dell'eros - per antitesi o per ossimoro? sarebbe interessante rifletterci - si riaffaccia da ogni parte. Roth non è pacato neanche nel raccontare l'agonia, vivisezionata nei suoi componenti più putrescenti, nelle ipocrisie sociali e nelle trasformazioni impietose che la malattia porta. E così ci sono brividi di compassione, di dolore, e non mancano tratti toccanti per quella vena lirica che il narratore affida alle azioni stesse, senza speculazioni di sorta.
L'animale morente è un libro che tocca, percuote, schiaffeggia, e lascia poi un turbamento che non promette niente di buono. Cioè, promette di sedimentarsi, di farsi appannare dall'illusione della dimenticanza per poi tornare a farsi scoprire al minimo rimando intertestuale, a un richiamo della vita di ogni giorno. E sento che, riemergendo, porterà di nuovo con sé la forza dirompente (e scomoda) della rivelazione.
Gloria M. Ghioni
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