di J. M. Coetzee
Einaudi, 1986
pp. 145
€ 9,00
Quando acquistai Foe di J. M. Coetzee pensai si trattasse di una delle tante riscritture di Robison Crusoe ed in effetti lo è, ma la direzione presa dal testo sin dalle prime battute porta il lettore molto lontano dall’isola sperduta in mezzo all’oceano. Dopo tutto, era immaginabile da uno scrittore tanto complesso come Coetzee, da parte mia amato ed odiato, uno scrittore che non riesce e non vuole raccontarci la realtà così com’è, che si rifiuta di dare indicazioni su tempo, luogo, personaggi, lasciandoci senza appigli, ma al tempo stesso, permettendoci di individuare una nostra interpretazione.
La trama di Foe, se esiste, è davvero esigua: una donna, Susan Barton, che naufraga su un’isola di ritorno dal Brasile, un uomo dal passato incerto, Cruso, che vive sull’isola da quindici anni ed un giovane, Venerdì, un ex schiavo a cui è stata mozzata la lingua. I tre trascorrono insieme un anno, fino al salvataggio e alla morte di Cruso sulla nave che lo avrebbe riportato alla civiltà. Susan, sola con Venerdì, fa ritorno in Inghilterra e affida la sua storia allo scrittore Foe, nella speranza che egli possa dare voce alla sua incredibile vicenda, così da ricavarne un guadagno. Tuttavia, Foe, dietro al quale si nasconde nient’altri che Defoe, è molto dubbioso in merito la storia di Susan: procrastina, chiede maggiori dettagli sull’isola poiché considera l’avventura della donna monotona, senza colpi di scena e per tale ragione desidererebbe aggiungere parti inventate allo scopo di dare maggiore vivacità al racconto. La narrazione si conclude senza che Foe produca l’opera tanto richiesta da Susan: la sua storia non verrà mai raccontata.
Ciò induce a riflettere sulla natura della narrazione: si può raccontare la storia? Questa è una delle questioni centrali della prosa di Coetzee e per la quale è stato fortemente criticato da altri scrittori sudafricani che l’hanno accusato di non utilizzare la scrittura come strumento per far conoscere i soprusi contro la popolazione nera durante l’apartheid. Tra di essi vi è Nadine Gordimer, scrittrice di stampo marxista, che nelle sue opere denuncia con grande chiarezza le atrocità commesse dai bianchi. Nel suo saggio “The Essential Gesture” (1984), l’autrice ci parla del senso di responsabilità che ciascun scrittore sudafricano, bianco o nero, dovrebbe avere in merito ai crimini commessi dal governo. Nel Sudafrica dell’apartheid non c’è tempo per la riflessione artistica, per gli sperimentalismi avanguardisti, la scrittura deve essere uno strumento di lotta, in questo sta la sua portata rivoluzionaria. Tale approccio alla materia letteraria non trova riscontro in Coetzee, il quale in “The Novel Today” (1987), scritto un anno dopo Foe, si interroga sul rapporto tra lo scrittore e la narrazione storica, dibattito acceso nel Sudafrica degli anni 80, quando incominciavano ad emergere i fermenti che avrebbero portato alla fine dell’apartheid. Coetzee afferma che la storia è semplicemente “a kind of discourse”, uno dei tanti possibili, ma non necessariamente il modello che ogni scrittore deve seguire. Ogni autore deve trovare la propria voce narrativa, scelta insindacabile.
L’epilogo di Foe attende le aspettative di Coetzee: la storia, vera, di Susan Barton ed i suoi compagni, non viene raccontata, perché dal punto di vista narrativo non può esistere e allo stesso modo Susan rifiuta che i fatti vengano raccontati in modo non veritiero:
“Ahimè, non faremo mai fortuna, Venerdì, restando semplicemente ciò che siamo, o siamo stati. Pensa allo spettacolo che offriamo: tu e il tuo padrone sui terrazzi, io sulle scogliere a scrutare l’arrivo di una vela. Chi può voler leggere di due scialbi individui che, su uno scoglio in mezzo al mare, passavano il tempo cavando sassi dalla terra? Quanto a me e al mio anelito di salvezza, ci si sente subito sazi come dello zucchero. Cominciamo a capire perché il signor Foe ha drizzato le orecchie quando ha sentito la parola cannibale, perché desiderava ardentemente ardentemente che Cruso avesse un moschetto e una cassetta con gli attrezzi da falegname. Senza dubbio, avrebbe preferito che Cruso fosse più giovane, e i suoi sentimenti per me più appassionati”.
Ed ancora Susan rivolgendosi a Foe:
“Una volta avete proposto di rimpolpare la parte centrale inventando cannibali e pirati. Non sono disposta ad accettarlo perché non corrisponde al vero. Ora proponete di ridurre l’isola a un episodio nella storia vera di una donna in cerca della figlia perduta. Rifiuto anche questo”.
Una lettura incrociata di Robinson Crusoe e Foe mostra le differenze tra il racconto del marinaio di York e quello di Susan Barton. Nel primo la vita sull’isola è avvincente materia di narrazione perché è densa di avvenimenti, a partire dall’ingegnosità di Robison all’incontro con Venerdì fino agli eventi che porteranno al salvataggio. Al contrario in Foe non accade nulla di appassionante: i tre naufraghi non coltivano la terra, ma si cibano di ciò che offre l’isola, non si devono difendere dai cannibali poiché non ne incontrano e la storia di Cruso e Venerdì, i personaggi che potrebbero risultare interessanti dal punto di vista letterario, rimarrà un mistero per Susan. In questo senso, la lingua mozzata di Venerdì è l’emblema di ciò che non può essere detto: “È figlio del proprio silenzio, un figlio non nato, un figlio in attesa di nascere che nascere non può”. Ed ancora:
“Sta a noi aprire la bocca di Venerdì e sentire cosa c’è dentro: silenzio, forse, o un mugghio, come il mugghiare di una conchiglia portata all’orecchio”.
La lettura di Foe genera domande sul ruolo dello scrittore ed il suo atteggiamento rispetto la narrazione storica. Scrivere di fatti realmente accaduti, la loro rielaborazione, è già un tradimento, per questo Susan Barton si dispera quando Foe accetta scetticamente l’incarico da lei affidatogli. Nel romanzo Adam Bede George Eliot si interroga sulla natura della narrazione e afferma che “Falsehood is so easy, truth is so difficult”.
Il limite della narrazione storica, a mio parere, è l’inevitabile scontro con la natura della scrittura, che è sempre, un atto di mediazione, un filtro che separa la realtà e la finzione.
Martina Pagano
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La traduzione è di Franca Cavagnoli, esperta di letteratura postcoloniale.
J. N. Coetzee (1940) è nato a Città del capo da famiglia afrikaner. Ha svolto i suoi studi tra il Sudafrica, l’Inghilterra e gli Stati Uniti da dove è stato espulso per aver partecipato a manifestazioni contro la guerra del Vietnam. Nel 1974 pubblica il primo romanzo Dusklands cui seguono molte opere sulle realtà del Sudafrica durante l’apartheid. Si dedica alla carriera universitaria e nel 2003 vince il Nobel per la letteratura. Attualmente vive ed insegna in Australia.
A chi volesse approfondire Coetzee consiglio un testo di Giuliana Iannaccaro, docente di letteratura inglese all’Università degli Studi di Milano, dal titolo J. M. Coetzee, Le Lettere, 2009. Oltre ad un ritratto dell’autore offre un quadro critico di ciascuna delle sue opere.