Clemente Rebora (Milano, 1885- Stresa, 1957) è una di quelle voci poetiche italiane che sono fortunatamente recuperate dalla critica in anni recenti. Considerato da Valduga e da Raboni il poeta più rilevante del Novecento, forse anche più di Montale a detta degli stessi, Rebora delinea due stagioni diverse della sua produzione lirica.
Al primo periodo, che va dagli anni della sua collaborazione sulla «Voce» agli anni '20, appartengono i frammenti numerati sobriamente qui sotto: anche da una semplice lettura, emergono la complessità strutturale e sintattica, dai lunghi periodi articolatissimi, tra anastrofi e iperbati; il tasso di neologismi e di deformazioni lessicali (spesso appartenenti alla categoria dinamicissima dei verbi) votate alla ricerca stilistica (il cosiddetto "stilismo verbale" di cui ha parlato Contini) e alla delineazione sempre più precisa degli oggetti rappresentati, con particolare attenzione all'inventività aggettivale (quasi mai l'aggettivo ha una funzione esornativa, ma è soprattutto connotante e contribuisce a definire i sostantivi). Come si può leggere nel frammento I, Rebora avverte l'insondabilità del tempo, nel controsenso perenne di una conquista che è solamente illusoria (da qui i numerosissimi ossimori, figura retorica prediletta), e non resta che adeguarsi a questo movimento universale in cui a nessuno è concesso fermarsi. Costante ansia e ricerca di verità, scontro tra contingente e infinito (non in senso baudelairiano, ma con una connotazione religiosa) sono tra i Leitmotives che già possiamo cogliere nei frammenti qui presentati.
Nella misura tradizionale di endecasillabi e settenari si muove una sperimentazione potente, forse senza pari, che invade anche la metrica con assonanze frequenti (comprese geminate di affricate dai suoi aspri e ingenerosi), rime senza schemi fissi ma presenti, richiami che ristrutturano il verso. L'ansia costruttiva si riflette nella lingua polifonica e mai pacificata, dinamica come suddetto, tra creazione di parasintetici di conio dantesco (di solito denominali prefissati in-), sinestesie, ossimori, antitesi violentissime.
L'ultimo testo selezionato, invece, appartiene a Canti anonimi (1922), raccolta che si colloca sul crinale tra la prima e la seconda produzione. Notiamo che si è affievolita la portata sperimentale, ma la bellissima Dall'immagine tesa è un messaggio di attesa della voce di Dio, della crisi spirituale che pochi anni dopo porterà Rebora a rispondere alle sue esigenze metafisiche prendendo i voti come sacerdote rosminiano. Da quel momento, viene abbandonata la poesia dei "frammenti", e soltanto in tarda età i Canti dell'infermità e Curriculum vitae testimonieranno l'afflato poetico del Rebora religioso.
(testi tratti da Clemente Rèbora, Le poesie (1913-1957), a cura di Gianni Mussini e Vanni Scheiwiller, Garzanti, Milano1994)
Al primo periodo, che va dagli anni della sua collaborazione sulla «Voce» agli anni '20, appartengono i frammenti numerati sobriamente qui sotto: anche da una semplice lettura, emergono la complessità strutturale e sintattica, dai lunghi periodi articolatissimi, tra anastrofi e iperbati; il tasso di neologismi e di deformazioni lessicali (spesso appartenenti alla categoria dinamicissima dei verbi) votate alla ricerca stilistica (il cosiddetto "stilismo verbale" di cui ha parlato Contini) e alla delineazione sempre più precisa degli oggetti rappresentati, con particolare attenzione all'inventività aggettivale (quasi mai l'aggettivo ha una funzione esornativa, ma è soprattutto connotante e contribuisce a definire i sostantivi). Come si può leggere nel frammento I, Rebora avverte l'insondabilità del tempo, nel controsenso perenne di una conquista che è solamente illusoria (da qui i numerosissimi ossimori, figura retorica prediletta), e non resta che adeguarsi a questo movimento universale in cui a nessuno è concesso fermarsi. Costante ansia e ricerca di verità, scontro tra contingente e infinito (non in senso baudelairiano, ma con una connotazione religiosa) sono tra i Leitmotives che già possiamo cogliere nei frammenti qui presentati.
Nella misura tradizionale di endecasillabi e settenari si muove una sperimentazione potente, forse senza pari, che invade anche la metrica con assonanze frequenti (comprese geminate di affricate dai suoi aspri e ingenerosi), rime senza schemi fissi ma presenti, richiami che ristrutturano il verso. L'ansia costruttiva si riflette nella lingua polifonica e mai pacificata, dinamica come suddetto, tra creazione di parasintetici di conio dantesco (di solito denominali prefissati in-), sinestesie, ossimori, antitesi violentissime.
L'ultimo testo selezionato, invece, appartiene a Canti anonimi (1922), raccolta che si colloca sul crinale tra la prima e la seconda produzione. Notiamo che si è affievolita la portata sperimentale, ma la bellissima Dall'immagine tesa è un messaggio di attesa della voce di Dio, della crisi spirituale che pochi anni dopo porterà Rebora a rispondere alle sue esigenze metafisiche prendendo i voti come sacerdote rosminiano. Da quel momento, viene abbandonata la poesia dei "frammenti", e soltanto in tarda età i Canti dell'infermità e Curriculum vitae testimonieranno l'afflato poetico del Rebora religioso.
(testi tratti da Clemente Rèbora, Le poesie (1913-1957), a cura di Gianni Mussini e Vanni Scheiwiller, Garzanti, Milano1994)
I
L'egual vita diversa urge intorno;
Cerco e non trovo e m'avvio
Nell'incessante suo moto:
A secondarlo par uso o ventura,
Ma dentro fa paura.
Perde, chi scruta,
L'irrevocabil presente;
Né i melliflui abbandoni
Né l'oblioso incanto
Dell'ora il ferreo bàttito concede.
E quando per cingerti io balzo
- Sirena del tempo -
Un morso appena e una ciocca ho di te;
O non ghermita fuggi, e senza grido
Nel pensiero ti uccido
E nell'atto mi annego.
Se a me fusto è l'eterno,
Fronda la storia e patria il fiore,
Pur vorrei maturar da radice
La mia linfa nel vivido tutto
E con alterno vigore felice
Suggere il sole e prodigar il frutto;
Vorrei palesasse il mio cuore
Nel suo ritmo l'umano destino,
E che voi diveniste - veggente
Passione del mondo,
Bella gagliarda bontà -
L'aria di chi respira
Mentre rinchiuso in sua fatica va.
Qui nasce, qui muore il mio canto:
E parrà forse vano
Accordo solitario;
Ma tu che ascolti, rècalo
Al tuo bene e al tuo male:
E non ti sarà oscuro.
III
Dall'intensa nuvolaglia
Giù - brunita la corazza,
Con guizzi di lucido giallo,
Con suono che scoppia e si scaglia -
Piomba il turbine e scorrazza
Sul vento proteso a cavallo
Campi e ville, e dà battaglia;
Ma quand'urta una città
Si scàrdina in ogni maglia,
S'inombra come un'occhiaia,
E guizzi e suono e vento
Tramuta in ansietà
D'affollate faccende in tormento:
E senza combattere ammazza.
VI
Sciorinati giorni dispersi,
Cenci all'aria insaziabile:
Prementi ore senza uscita,
Fanghiglia d'acqua sorgiva:
Torpor d'àttimi lascivi
Fra lo spirito e il senso;
Forsennato voler che a libertà
Si lancia e ricade,
Inseguita locusta tra sterpi;
E superbo disprezzo
E fatica e rimorso e vano intendere:
E rigirìo sul luogo come cane,
Per invilire poi, fuggendo il lezzo,
La verità lontano in pigro scorno;
E ritorno, uguale ritorno
Dell'indifferente vita,
Mentr'echeggia la via
Consueti fragori e nelle corti
S'amplian faccende in conosciute voci,
E bello intorno il mondo, par dileggio
All'inarrivabile gloria
Al piacer che non so,
E immemore di me epico arméggio
Verso conquiste ch'io non griderò. [...]
Dall'immagine tesa
Dall'immagine tesa
Vigilo l'istante
Con imminenza di attesa -
E non aspetto nessuno:
Nell'ombra accesa
Spio il campanello
Che impercettibile spande
Un polline di suono -
E non aspetto nessuno:
Fra quattro mura
Stupefatte di spazio
Più che un deserto
Non aspetto nessuno:
Ma deve venire,
Verrà, se resisto
A sbocciare non visto,
Verrà d'improvviso,
Quando meno l'avverto:
Verrà quasi perdono
Di quanto fa morire,
Verrà a farmi certo
Del suo e mio tesoro,
Verrà come ristoro
Delle mie e sue pene,
Verrà, forse già viene
Il suo bisbiglio.
(1920)
Introduzione e selezione dei testi a cura di Gloria M. Ghioni
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