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Pillole d’autore: Lolita di Nabokov

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A volte, quando l’autore di un classico si prende la briga di parlare di come l’abbia scritto, allora si ha un testo altrettanto interessante. Oltre a Lolita un altro celebre caso che mi viene in mente sono le Postille al Nome della Rosa di Eco, altro testo ricco di succose notizie che è un piacere scoprire dopo la lettura del romanzo.
Nell’edizione dell’Adelphi di Lolita possiamo leggere questa sorta di postfazione dell’autore e farci anche un’idea di cosa potesse suscitare l’uscita di un libro del genere negli anni ’50. Alcune persone che non lo hanno letto, pensano ancora che sia un libro fin troppo licenzioso, altri temono che possa rivelarsi perverso e per questo pesante da leggere. Lolita non è né l’uno né l’altro. Nabokov ha saputo raccontare la storia dell’amore di un uomo adulto per una ragazzina senza che i particolari e il linguaggio si facessero triviali, senza che il lettore smettesse però di avvertire quell’amore come qualcosa di innaturale e distorto.
A quanto ricordo, l’iniziale brivido di ispirazione fu in qualche modo provocato da un articolo di giornale su una scimmia del Jarden des Plantes, la quale, dopo mesi di blandizie da parte di uno scienziato, aveva fatto il primo disegno a carboncino dovuto ad un animale: il bozzetto rappresentava le sbarre della gabbia della povera creatura.
Lolita, in effetti, racconta di come l’ossessione di Humbert Humbert abbia dato luogo ad una forma tutta particolare di prigionia per una ragazzina di appena dodici anni, il cui nome vero portava già il segno della sofferenza: Dolores.

La prima versione del romanzo era in realtà un racconto in russo del 1949; la seconda versione, in inglese
[…] era una cosa nuova, a cui erano cresciuti in segreto gli artigli e le ali di un romanzo. […] Un paio di volte fui sul punto di bruciare la stesura incompiuta, e avevo condotto la mia Juanita Dark fino all’ombra dell’inceneritore inclinato sul prato innocente, quando mi arrestò il pensiero che il fantasma del libro distrutto avrebbe ossessionato i miei schedari per il resto della mia vita.
Un altro passo intenso allo stesso modo è quello in cui l’autore parla delle lingue in cui scriveva i suoi lavori:
La mia tragedia privata, che non può e non deve riguardare nessun altro, è che ho dovuto abbandonare il mio idioma naturale, la mia lingua russa così ricca, così libera, così infinitamente docile, per una marca di inglese di seconda qualità, priva di tutti quegli apparati – lo specchio ingannatore, il fondale di velluto nero, le tacite associazioni e tradizioni – che l’illusionista indigeno, con le code del frac svolazzanti, può magicamente usare per trascendere a suo modo il retaggio dei padri.
Viene di chiedersi come sarebbe stato il romanzo se fosse stato davvero scritto in russo, lingua che l’autore descrive in modo tanto sentito, con la stessa nostalgia con cui Tomasi di Lampedusa lamenta la perdita della sua casa natale, distrutta dai bombardamenti nel 1943. Chissà che cos’avremmo letto noi, ché la traduzione di un testo ne crea uno del tutto nuovo rispetto all’originale; se ha scritto in modo tanto sublime in una lingua che non era sua e in una declinazione che definisce pure “di seconda qualità”, come sarebbe stato avere uno dei suoi più grandi romanzi nella sua lingua madre?
Allo stesso tempo, però, non bisogna soffermarsi troppo su questi interrogativi.
Del suo romanzo Nabokov scrisse ancora:
Lolita non si porta dietro nessuna morale. Per me un’opera di narrativa esiste solo se mi procura quella che chiamerò francamente voluttà estetica, cioè il senso di essere in contatto, in qualche modo, in qualche luogo, con altri stati dell’essere dove l’arte (curiosità, tenerezza, bontà, estasi) è la norma.
E queste mi sembrano le parole migliori per descrivere un romanzo come Lolita, di cui riporto qualche passo in cui il protagonista - nonché voce narrante - descrive la sua vita con una donna di nome Valeria, prima ancora di conoscere la piccola Lolita:
L’unica qualità di Valeria era la sua indole in sordina, che contribuì certo a creare un incongruo senso di benessere nel nostro piccolo, squallido appartamento: due stanze, vista brumosa da una finestra, muro di mattoni dall’altra, una minuscola cucina, e una vasca a forma di scarpa nella quale mi sentivo come Marat, ma senza nessuna fanciulla dal collo bianco che mi pugnalasse.
Ricorrevo solo raramente alle sue carni stantie; solo in caso di estrema urgenza e disperazione. Il droghiere di fronte aveva una figlioletta la cui sola ombra mi faceva impazzire; e tuttavia, grazie a Valeria, trovai finalmente uno sfogo legale al mio stravagante problema.
In questi passi è subito evidente il modo discreto e preciso in cui il protagonista descrive il suo modo di sentire, la sua sessualità.
Queste che seguono sono forse tra le righe più note del romanzo, quelle del primo capitolo:
Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi. Mio peccato, anima mia. Lo-li-ta: la punta della lingua compie un percorso di tre passi sul palato per battere, al terzo, contro i denti. Lo. Li. Ta.
Era Lo, semplicemente Lo al mattino, ritta nel suo metro e quarantasette con un calzino solo. Era Lola in pantaloni. Era Dolly a scuola. Era Dolores sulla linea tratteggiata dei documenti. Ma tra le mie braccia era sempre Lolita.
E lei era mia, mia, avevo la chiave in pugno, il pugno in tasca, era mia! […] Nuda, eccettuato un calzino e il braccialetto portafortuna, a braccia e gambe aperte sul letto dove il mio filtro l’aveva abbattuta…così la anticipavo nella fantasia; un nastro di velluto ancora stretto fra le dita; il corpo d’un miele ramato, con un rudimentale costume da bagno disegnato al negativo sull’abbronzatura, mi offriva i pallidi boccioli del seno; nella luce rosata della lampada una leggera lanugine pubica luccicava sulla sua paffuta collinetta. La chiave era gelida, con la sua tiepida appendice di legno, era nella mia tasca.
La droga con cui l’addormenta è un “filtro”, il corpo è “d’un miele ramato”, i capezzoli lasciano lo spazio ad un’immagine più innocente che sa di fiori; il suo sesso è trasfigurato in una collinetta, senza malizia.
Credo sia in questo che consiste la bellezza del romanzo e anche nell’espediente con cui l’autore pian piano ci rivela che il racconto non è altro che la difesa che l’imputato Humbert Humbert pronuncia di fronte ad una giuria popolare.
La norma del codice romano secondo la quale una fanciulla può sposarsi a dodici anni è stata adottata dalla Chiesa, e in alcuni degli Stati Uniti vige ancora, piuttosto tacitamente. […] Io ho soltanto seguito la natura. Sono il fedele segugio della natura. Perché dunque non riesco a scrollarmi di dosso questo senso d’orrore? L’ho forse derubata del suo giglio? Sensibili dame della giuria, non sono stato nemmeno il suo primo amante.
Humbert Humbert, nella sua brutalità, ama Lolita ben oltre la sua età di “ninfetta” - termine che lui stesso usa per definire quelle ragazzine che, pur essendo piccole, emanano già sensualità – lui continua ad amare Dolores oltre i suoi dodici anni:
Non potevo uccidere lei, naturalmente, come ha pensato qualcuno. Vedete, io l’amavo. Era amore a prima vista, a ultima vista, a eterna vista.

Lorena Bruno