Lo stile è la fotografia dell’anima. Non mettete mai
nel vostro scrivere quello che non siete risoluti
a mettere nelle vostre azioni. (Francesco de Sanctis)
L’orrendo termine anglofono “best seller”, entrato nel vocabolario italiano per disturbare il sonno dei bellissimi lemmi “bertuccia” e “bettola”, e che il destino ha voluto vicino a “bestialità” (ritengo lo abbia fatto volutamente), in maniera molto semplificata starebbe per: “oggetto che, immesso nel mercato, riporta un notevole numero di vendite”. Purtroppo l’appellativo “best seller”, se ho capito bene, è oggi utilizzato come sinonimo di “buona qualità”. Quell’oggetto, sentiamo dire, è un “best seller”! Dobbiamo sempre ricordarci che il gusto delle masse non è mai indice di qualità di un prodotto[1]. Difatti spesso incontriamo dei cosiddetti “best sellers” i quali, dopo averli fruiti, riteniamo che posseggano l’eleganza del vomito di un infante con la febbre. Ci meravigliamo, invece, quando intravediamo qualcosa di sublime in un oggetto non riconosciuto nemmeno da un essere vivente al mondo.
Non so se di vendite si possa parlare (lo potrei chiedere al LeGoff… se sapessi come), tuttavia nel medioevo, periodo considerato inspiegabilmente “buio”[2], di tali “best sellers” se ne videro parecchi. E in quel caso, “best seller” e “buona qualità” coincisero perfettamente (forse, a quei tempi, il senso del gusto funzionava bene). Tra tutti, vorrei ricordare due “casi editoriali”: il “De consolatione philosophiae” di Boezio, e il “Liber Sententiarum” di Pietro Lombardo.
Il “De consolazione philosophiae” fu scritto da Boezio nel 525-526, quando il filosofo venne imprigionato a Pavia con l’accusa di essere un «oppositore del corso della giustizia», un nemico del re Teodorico e di aver esercitato le arti magiche. In un misto di poesia e di prosa, diviso in cinque libri, Boezio ci descrive di aver sognato la Filosofia, bella come la donna incontrata (sempre in sogno) da Socrate nel Critone. Il libro di Boezio divenne un successo. Lo lesse tutto il medioevo, Dante, Tommaso Moro e il cavalier Casanova, a Venezia, nella prigione dei Piombi.
Il “Liber Sententiarum” fu scritto da Pietro Lombardo nel 1152, quando il filosofo probabilmente si trovava in Francia, perché allievo di Abelardo. È un libro di teologia, diviso in quattro libri, in cui si alternano contrasti tra auctoritates e quaestio. Pietro Lombardo, cioè, attraverso il metodo dialettico, contrapponendo i testi autorevoli e le questioni che ne sorgevano dalle letture, tentava di giungere al senso intimo dello scritto. Il libro, considerato da Grabmann uno dei libri più commentati nell’Occidente (basta leggere la biografia di un filosofo medievale per notare che, tra le sue opere, spicca un “Commento alle Sentenze di Pietro Lombardo”), fu letto almeno fino agli inizi del 1600.
Dunque: che aggiungere? Avrei dovuto aggiungere un buon finale, in linea con il senso dell'articolo… Ma non mi va. O, chissà, scrivendo ho dimenticato ciò che dovevo dire. Probabile: mi accade spesso. Adesso scriverò ciò che, invece, voglio dire. Questo. So che è “fuori moda” confrontare la nostra epoca con la gloria del passato (ecco: sento Leopardi che scorre nelle mie vene e urla la sua approvazione!), e so che è altrettanto “fuori moda” (forse) scrivere una critica alla contemporaneità camuffando la critica stessa in una sorta di articoletto da terza pagina[3] che, attraverso l’analisi veloce (sbadata, anche) di due opere, dice e non dice la seguente frase: «la storia che stiamo vivendo fa schifo ed è priva di genialità e di gusto». Oh cavolo!, l’ho detto. Mi si ribatterà (se il lettore non è ancora fuggito): perché non inizi tu a proporre genialità e gusto, piuttosto di disprezzare? Risponderò: non sono un genio e non posso. Ma so che disprezzare è un po’ amare: ami, perché vorresti che qualcosa fosse, e non lo è purtroppo[4]. E mi si ribatterà nuovamente (lettore, non sei ancora fuggito?): perché questo attacco di isteria? Non so. Insomma, questo il mio gusto: desidererei che il futuro fosse elegante come il passato, tutto qui[5].
Dario Orphée
[1] I palinsesti dei programmi televisivi -almeno quelli italiani- sono una dimostrazione: la tv è l’oggetto preferito dalle masse, quello che la tv trasmette è ciò che le masse (le quali sono una fonte economica) vogliono ad ogni costo vedere (se così non fosse, gli autori televisivi perderebbero il lavoro). Con questo non voglio dire che la tv dovrebbe trasmettere programmi culturali (se ci fossero, tanto meglio), perché per la cultura esistono i libri, i musei, i teatri, ecc. Ma essa è uno strumento -purtroppo- immediato: usata male trasmette, comodamente, stupidaggini a un pubblico vastissimo.
[2] A me, basandomi sulla speculazione filosofica e sull’arte, il medioevo appare molto più “luminoso” e produttivo del nostro periodo storico (il quale è confuso e corroso da un’eccessiva “democrazia artistica”: chiunque fa forme, nessuno fa contenuti). Ritengo che il medioevo abbia involontariamente guadagnato l’aggettivo “buio” perché accanto a due periodi storici importantissimi e indiscutibilmente belli, proprio belli. Ma fare questo tipo di comparazioni sarebbe come se si volesse sostenere la logicità del banale esempio che segue: “Le cipolle sono meno buone delle carote e del sedano”. Si tratta di periodi storici (o di ortaggi) totalmente diversi tra loro.
[3] Di moda alla fine dell’ottocento e ormai quasi del tutto inesistenti.
[4] Non ho inventato io questo concetto (l’ho detto: non sono un genio). Tuttavia, se qualcuno è interessato, indico la fonte originale: Francesco De Sanctis, “Saggi ciritici”, a cura di Luigi Russo, Editori Laterza, Bari, 1961. Epistolario di Giacomo Leopardi, pagg 1-7.
[5] Di geni, nella mia vita, ne ho incontrati due. Il primo, A. S., è stato mio compagno al liceo; il secondo, F. D. T., collega all’università. Entrambi, di una eleganza intellettuale oggi introvabile, hanno deciso di non applicare la loro genialità (che, tra l’altro, ritenengono di non possederla) al servizio dell’arte, ma della scienza. Questa nota è per loro, affinché rispristinino il gusto.
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