Flegias |
Entrando nello studio di Giovanni Scifo, ricordo che soprattutto due tra i miei cinque sensi avevano subìto una profonda affezione: l’olfatto e la vista. Privilegiai appositamente l’olfatto, mettendolo al primo posto, perché… perché quando il giovane pittore dark aprì la porta del suo “regno”, andai con il naso, come un segugio in cerca di selvaggina, verso i dipinti poggiati in terra o sui cavalletti: un po’ sedotto dal profumo del legno che proveniva dalle pareti e dal soffitto, un po’ spinto dall’inebriante odore della trementina e dell’acqua ragia, diffuso dalle scatolette di latta dentro cui erano immersi alcuni pennelli. La vista, in realtà, la usai poco: sì, per chiudere la porta alle mie spalle, per non pestare la coda del cane, per avvicinarmi al pittore che, con semplice gestualità, raccontava: «Come puoi notare, per adesso sto lavorando a un ciclo di dipinti…». Nonostante una piccola lampada fosse accesa e facesse bene il suo dovere -era lì, posizionata su un banchetto, tra colori e fogli di giornale-, i miei occhi lasciarono che l’immaginazione vagasse solitaria da tela a tela, da oscurità a oscurità. E trovai. Trovai, con sorpresa, intense pennellate, per cupe atmosfere a olio e acrilico. Pennellate che trascendevano la loro posizione, che volevano scavare all’interno delle più tortuose cavità dell’anima umana, giungendo al nucleo dell’orrore. E l’orrore appariva piuttosto definito, tanto da riuscire a concatenare quadro e quadro, come un canovaccio lega una sere di racconti.
Cannibal count ugolino |
Posai, poi, lo sguardo su “Flegias” e “Cannibal count Ugolino”, poco distanti da me; e dissi, alternando questa domanda prima su uno, dopo sull’altro: cosa può dirci l’orrore che noi non sappiamo? «Sono convinto -rispose Scifo- che l’orrore faccia parte della “natura” umana più di qualsiasi altra cosa, nel senso che l’uomo è “naturalmente” portato per l’orrore sin dall’alba dei tempi. Ci convive benissimo: è un linguaggio che conosce molto bene sia nella finzione (romanzi, film…), sia nella realtà quotidiana (guerre, omicidi, violenze…). Oggi, che viviamo in una società protetta, quasi sterilizzata rispetto ai nostri antenati primitivi che morivano divorati da animali feroci, sentiamo il bisogno di rievocare quelle paure ancestrali quasi per esorcizzarle. Ecco perché nei miei lavori scelgo sempre tematiche che possano arrivare a tutti: come la morte, il sesso… tematiche che fanno parte del nostro DNA. Mentre in passato l’orrore aveva uno scopo quasi pedagogico e ammonitivo, oggi non è più così. Oggi è puro intrattenimento: godiamo nell’avere paura, ci piace sentirci al sicuro e spaventarci. È un po’ come tornare bambini».
Amore e le parche |
nephilim compl |
Come un bambino, infatti, proseguii il mio viaggio all’interno di questo teatro macabro. Colpì il mio interesse il dipinto “Amore e le parche”, pieno di una paura perfettamente espressa dalla luce oppressiva (forse seppia?) e, soprattutto, dai volti dei personaggi. Perché unire divinità temibili, come le Parche, ad Amore? «“Amore e le Parche” è un lavoro un po’ diverso dai miei soliti. Sono partito da un concetto preciso, questo: fino a che punto le scelte di ognuno di noi influenzano il nostro destino? Faccio un esempio: innamorarsi di qualcuno. Questo comporta delle responsabilità, e sicuramente è una scelta che determinerà una svolta nella nostra vita. Gli antichi greci, e poi i romani, avevano delle personificazioni simboliche del destino, come le Parche. La prima filava, quella di mezzo tesseva e l’ultima, infine, tagliava il filo della vita degli uomini; e il loro giudizio era incontrovertibile persino per gli dei. Erano delle divinità crudeli (sì, è vero), ma anche l’amore, o Amore, a volte lo è. Oggi più che mai questo concetto è attuale: sempre più persone si preoccupano del proprio destino, anzi sembra che la crisi non abbia intaccato nemmeno un po’ l’esistenzialismo! Sento moltissime persone chiedersi: chissà cosa ha in serbo il destino per me… come se il fato, avesse un piano ben preciso per ciascuno di noi. Non è un caso che ci sia un crescente interesse verso l’occulto e l’astrologia. Ciò che volevo rappresentare era proprio l’angoscia che abbiamo tutti per il futuro; volevo raffigurare questo in modo enigmatico, impalpabile, familiare, ma anche mostruoso, con colori caldi, quasi bruciati. Il risultato doveva avere il sapore di qualcosa di antico, ma al contempo di moderno. Volevo colpire l’immaginazione del fruitore, ovvero la nostra immaginazione, che è basata sulle conoscenze tramandate dagli antenati».
Requiem |
Fu straordinario ciò che percepii in seguito. Alcuni quadri mi ricordarono molto le “Pitture nere” di Goya e gli incubi simbolisti di Füssli. Ma una cosa, però, mi sembrò usata in contraddizione con gli autori “oscuri”: la luce. Molti quadri, infatti, apparivano “accesi”. Non c’era necessariamente citazione del nero. Come mai questa scelta?, domandai. Puntuale, Scifo rispose: «Goya e Füssli erano dei grandi pittori che parlavano per simboli, usavano l’allegoria per evocare il male presente in ognuno di noi (e quindi anche il bene). La loro pittura era “crepuscolare”. Ed è questo il significato che preferisco dare al “dark” (letteralmente sarebbe “oscuro”). Trovo la parola “crepuscolare” molto più interessante di “oscuro”. Premesso ciò, ecco spiegato perché un dipinto, per apparire “crepuscolare”, non deve necessariamente presentarsi “nero”: l’essere “crepuscolare” è un accezione che viene “dall’interno di ciò che è rappresentato nel dipinto”, e non dall’estetica. Mi spiego: i miei ultimi soggetti (Caronte, Ugolino, le Parche, i Nephilim…) raffigurano personaggi le cui storie sono note a tutti e sono davvero crepuscolari, sono talmente forti come storie che non hai bisogno di caricarle di colori scuri per dargli forza, anzi dandogli una luce in più non si fa che accentuare la loro matrice dark intrinseca. È un ragionamento… come dire? Di dissonanza. Ma che, secondo me, attira maggiormente la curiosità di chi osserva il quadro*».
Dario Orphée
*Per una completa analisi: www.scifo.deviantart.com