di Raymond Queneau
Einaudi, Torino 2005
€ 11
pp. 278
1^ edizione originale: 1965
€ 11
pp. 278
1^ edizione originale: 1965
Il venticinque settembre milleduecentosessantaquattro, sul far del giorno, il Duca d’Auge salì in cima al torrione del suo castello per considerare un momentino la situazione storica. La trovò poco chiara. Resti del passato alla rinfusa si trascinavano ancora qua e là. Sulle rive del vicino rivo erano accampati un Unno o due; poco distante un Gallo, forse Edueno, immergeva audacemente i piedi nella fresca corrente. Si disegnavano all’orizzonte le sagome sfatte di qualche diritto Romano, gran Saraceno, vecchio Franco, ignoto Vandalo. I Normanni bevevano calvadòs.
Non è il nuovo spettacolo di Bergonzoni.
Probabilmente è vero: non è l’incipit di Anna Karenina che tutti conoscono, in traduzioni più o meno buone, e che tutti citano a proposito e a sproposito. Ma l’attacco di questo romanzo andrebbe ugualmente imparato a memoria e inserito in ogni tipo di conversazione.
Leggere questo romanzo genera la stessa sensazione che si ha quando ti viene presentato un personaggio importante, uno studioso da cinque stelle, una personalità che fa eco anche solo entrando in una stanza: sei convinto che si tratterà di un tipo antipatico, sostenuto e pieno di sé. Immaginate la sorpresa quando invece scoprite che è alla mano, affabile e per niente arrogante. La mia paura di non essere all’altezza di un simile libro si è sciolta dopo le prime battute.
In ogni analisi del testo che si rispetti, di quelle che si facevano alle medie e alle superiori, si deve riassumente il contenuto dell’opera, la trama. Proprio come quando ti chiedono di spiegare esattamente e razionalmente perché il personaggio importante, di cui sopra, ha fatto una così buona impressione, non ho saputo rispondere. Potrei dire che ci sono due personaggi principali: il Duca d’Auge, feudatario e dispotico castellano con tre figlie, e Cidrolin proprietario di una chiatta che passa il suo tempo a dormire e ridipingere la cancellata vittima di graffiti vandalici. Ci sono delle date: il Duca d’Auge vive nel 1264, almeno all’inizio, e Cidrolin nel 1964, almeno alla fine. Ci sono i viaggi che compie il Duca d’Auge in groppa al suo fido destriero Demostene e ci sono i campisti candesi o irochesi che transitano davanti a Cidrolin. E ci sono i sogni: Cidrolin quando dorme sogna di essere il Duca d’Auge… oppure è il Duca d’Auge che quando dorme sogna di essere Cidrolin? Si ha l’impressione di essere a metà tra Don Chisciotte della Mancia e La vita è sogno di Calderòn de La Barca.
Sempre nelle buone analisi del testo c’era la domanda “Cosa voleva comunicare l’autore? Qual è il significato dell’opera?”. Il titolo aiuta poco: in francese indica ironicamente le persone nostalgiche, pure e idealiste. Forse potremmo dire che l’idealismo è lo scudo contro la durezza e l’opacità della vita reale. Oppure questi “fiori blu”, gli idealisti, emergono dal fango della Storia ormai in disfacimento. Italo Calvino, traduttore dell’opera, rimpiange di non aver chiesto lumi dettagliati all’autore, laconico e taciturno di suo: lo rimpiango anch’io, perché se mi fosse capitato un simile compito in classe non avrei strappato nemmeno la sufficienza. Spero sia comunque sorta un po’ di curiosità.
Italo Calvino conclude il volume con una splendido mini- saggio sulle difficoltà di traduzione, sui significati dell’opera e sulle finezze nascoste tra le righe. Lui si è sentito tirate per il lembo della giacca da questo libro che chiedeva di essere letto e tradotto: vi farà lo stesso effetto.
E se non indossate la giacca sicuramente tirerà il vostro golf, la camicia, i pantaloni.