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“[…] La donna si appoggiò allo schienale del sedile, sistemò la gonna
sulle ginocchia, le palpebre si abbassarono, i lineamenti si distesero, si
abbandonò al torpore che pian piano l’avvolgeva. Tutto era già stato. Tra i
ricordi, tra le memorie di una vita, per tutti, c’è un motivo ricorrente che ne
segna e scandisce le stagioni più
significative. Un’immagine, un rumore, un profumo, una vaga sensazione di déjà
vu. La percezione di un mutamento che sta per segnare la tua esistenza, o di un
ineluttabile ritorno al passato. Per Liana era il rumore del treno. Un treno
che transita, un treno che parte, un treno che arriva o che squarcia il
silenzio con il suo urlo metallico e canta col frastuono ritmico dello
sferragliare. Il treno, sempre presente: odori, suoni, rumori, impressi
nell’anima e nella mente”
Lei è Vesna, una
ragazza solare, brillante, un po’ capricciosa, certo, ma di animo nobile. Il
padre e il fratello sono partigiani, combattono il Fascismo fino alla fine; non
hanno paura, sfidano il pericolo, rischiano grosso, ma restano lì, più forti di
prima, lontani e, al tempo stesso, vicini alla famiglia: la Storia – si sa – unisce e divide, ma non per sempre. La madre, brontolona, sì,
ma tanto amorevole, si prende cura della casa e della figlia: non le
accarezza le guance, né è abituata a
stringerla forte a sé; la mamma, che poi è uno tra i personaggi più riusciti
delle Primavere di Vesna, le accarezza il cuore: è lì con lei, quando
tutto va a rotoli; è lì con lei, quando è costretta ad abbandonare il suo
piccolo paesino. La madre, come il papà e il fratello, resta lì, non più forte
di prima, perché le mamme – si sa – ‘nascono’ forti.
La famiglia di Vesna, che
con la bellezza del suo soprannome nasconde i timori, le paure e l’ingenuità di
Liana, è questa: unita nel bene e nel male, fino alla fine, in un ‘per sempre’
che regala a tutto l’intreccio narrativo ‘qualcosa di più’; non lo rende una
semplice successione di eventi, raccontati solo e soltanto per fare compagnia al lettore: le primavere di Vesna si intrecciano, si sovrappongono e susseguono
senza sosta, dal 1937 al 1964, portando con sé ansia, dolore e disperazione;
felicità, tenerezza e grandi sorprese, ma un solo e grande messaggio: in un modo o
nell’altro, forse con un po’ di ritardo, forse in modo un po’ troppo affrettato,
Vesna ce la fa, mette un punto e va a capo, ricomincia a vivere, anche quando
tutto sembrava ormai finito.
È l’amore per se stessi
il motore di tutto il romanzo di Ida Verrei; o meglio, l’amore per la vita, la voglia di andare
avanti e di riscattarsi, anche quando è tuo marito, un ex-ufficiale dalle “pupille
color nocciola”, a renderti la vita un inferno, a distruggerti la famiglia,
a portarti via le figlie, impedendoti di continuare a vivere un sogno che,
qualche anno prima, molti anni prima,
non avresti mai e poi mai messo in discussione: Giovanni, il primo amore di
Liana, non è più lo stesso; scappa dal matrimonio così come fuggì un tempo dai
suoi ideali fascisti; perde l’amore di sua moglie e si rifugia in diversivi che
non faranno altro che portarlo sempre più in basso. Giovanni cambia, e con
lui anche Vesna, che, però, rinasce. Per l’ennesima bellissima volta.
“Le Vesnas - scrive la Verrei - sono
figure fantastiche legate alla giovinezza e alla primavera. Sono donne belle e
sapienti, che vivono in splendidi palazzi in cima alle montagne. Un incantesimo
permette loro di uscire e raggiungere la valle solo in un certo periodo
dell’anno. Il loro arrivo porta la primavera”
Prima di portare
la primavera, di viverla, Liana sperimenta tutte le altre stagioni: conosce la
gioia e la vivacità dei colori dell’estate; l’inconsistenza dell’autunno e il
gelo dell’inverno, quando dentro l’animo, e non fuori casa, grandina: le grandi donne – si sa – devono per forza
avere i loro scheletri nell’armadio. Non importa che Liana abbia salvato
Giovanni dalla furia fascista e dalla fine del Ventennio, né che abbia sempre
cercato di conservare e difendere a spada tratta la sua verginità; deve esserci
per forza qualcosa che stride, e non è il romanzo a insegnarcelo, ma la vita.
Ecco che allora si lascia andare alla passione in una giornata uggiosa che, poi
maledetta a lungo, la avvolge in un calore infinito:
“Non sapeva bene se quello che le
stava succedendo fosse reale oppure un sogno. Fu lei per prima ad accostare la
bocca a quella di lui. Poi gli strinse forte le braccia attorno al corpo. […]
Restarono qualche minuto così, con i respiri che si confondevano, con i corpi
avvinghiati che si percepivano in ogni fibra, in un languore che invadeva reni
e visceri. Sentì una mano sollevarle la gonna, e poi salire su, percorrerle le
gambe, oltre le calze pesanti, sulla pelle nuda, verso il ventre, spostando
delicatamente le mutandine. Desiderò che quella mano non si allontanasse ma
continuasse ad avanzare, fin dove ormai era lava incandescente. L’insostenibile
piacere che le davano quelle dita roventi la fecero gemere, ebbe un lungo
brivido, e si aprì, perché lui la trovasse. […] Armeggiò qualche secondo con i
pantaloni, poi le sfilò le mutandine, le allargò piano le cosce e le fu dentro.
Un dolore acuto, un urlo soffocato e poi fu solo un vortice bruciante”
Ecco che conosce
un uomo, un altro uomo, che forse si è meritata: ha perso il controllo di se
stessa; ha creduto che avrebbe potuto risolversi buttandosi a capofitto in un
‘diversivo’ che, seppur differente nella forma da quello di Giovanni, non lo è nella sostanza: si regala una illusione, e con essa tutte le sue conseguenze; ama farlo (ma non troppo). E allora
di Vesna non resterà che l’ombra, il lontano ricordo di una donna che fu. Ma
che tornerà.
Le Primavere di Vesna è proprio
questo: non solo un viaggio nei ricordi, ma anche, e soprattutto, un viaggio
nell’animo di una ragazzina divenuta poco più che donna, che affronta il mondo
di petto, piange per i suoi sbagli e implora il perdono di Dio, inciampa, cade;
poi, però, guarda avanti, un po’ nostalgica, ma non importa: il futuro la
aspetta e lei non si sottrae.
Ida Verrei è stata abile nel
dipingere il ritratto di una storia di sempre, quella del cuore e dei moti
dell’animo, con tinte e colori che appartengono solo a lei: scarseggiano le
sequenze riflessive, primeggiano quelle narrative e descrittive in modo
armonioso, senza mai stridere; tra battute, regionalismi e coloriture mai inopportune, i dialoghi catapultano il lettore in un mondo fatto di rinunce, sacrifici e scoperte, per un dipinto che è molto più di un semplice quadro.
Michele Rainone