Il frontespizio della prima edizione inglese (1843)
La storia del Canto di Natale è un pilastro della memoria collettiva, tanto quanto quella del Don Chisciotte o di Romeo e Giulietta. In tutti e tre i casi la civiltà occidentale si è appropriata di simboli letterari – di quelle ombre che siamo soliti definire «personaggi» – che si sono rapidamente trasformati in veri e propri archetipi. È un processo che, in retorica, ha un nome preciso: antonomàsia. Così come don Chisciotte è diventato il termine di paragone di chiunque viva in un universo bislacco e velleitario, e Romeo e Giulietta rappresentano infinite schiere di amanti schiacciati dal fato, la storia del Canto di Natale ha consegnato col suo protagonista, Ebenezer Scrooge, un esempio imperituro di gelida aridità spirituale.
Che la storia di Dickens sia ormai divenuta un classico non soltanto letterario, ma socio-antropologico, è dimostrato dalle numerosissime riduzioni teatrali e cinematografiche (per il solo cinema, si contano ben 25 adattamenti fedeli del testo, l'ultima in 3D con Jim Carrey, la più tradizionale coi noti personaggi Disney). Scrooge ha «prestato» il suo nome e la sua fisionomia caratteriale a un altro grande personaggio, stavolta del fumetto: Scrooge McDuck, il nostro Paperon de’ Paperoni, che al contempo è risultato essere un fratello della creatura di Dickens e un campione del sogno americano.
Alla prima edizione (1843), Charles Dickens restò piuttosto deluso dai proventi che riuscì a ricavare: ma questo suo racconto di allegoria e redenzione era destinato a grandi successi nel lungo percorso, non nell'immediato. Presto la tipica esclamazione incredula di Scrooge, «Bah! Humbug!» (che nelle nostre edizioni corrisponde al «Bah! Sciocchezze!») è entrata a pieno titolo nella lingua inglese come frase idiomatica; e secondo una corrente di studi storiografici, è stato proprio A Christmas Carol a stimolare in epoca vittoriana un vero e proprio revival del Natale. Revival, certo, ma con caratteristiche peculiari. Perché il Natale di Dickens ignora i rituali liturgici e dottrinali, o quanto meno li mette da parte. Ciò che gli interessa non è indagare il rapporto tra l’uomo e Dio, quanto ridefinire quello tra l’uomo e l’uomo. Così Fred, nipote di Scrooge, spiega nella Prima Strofa cos’è per lui il Natale:
un bel giorno, un giorno in cui ci si vuol bene, si fa la carità, si perdona e ci si spassa: il solo giorno del calendario, in cui uomini e donne per mutuo accordo pare che aprano il cuore e pensino alla povera gente come a compagni di viaggio verso la tomba e non già come ad un’altra razza di creature avviata per altri sentieri.
È una limpida dichiarazione di umanesimo sociale, di aspirazione alla concordia e all’equità, alla cooperazione degli individui per una felicità collettiva. Scrooge, archetipo (positivistico, si potrebbe dire) dell’avaro e dell’arido di spirito, non riesce ancora a capirlo: ma lo scopo di Dickens – quest’autore per cui l’indimenticabile performance narrativa dev’essere sempre al servizio di uno scopo pedagogico e civile – è proprio dimostrare che anche l'archetipo non è una figura fissa, condannata per predestinazione.
Anche per il più rigido dei razionali e per il più crudele degli «uomini della City» è possibile una redenzione. La componente soprannaturale del racconto – l’apparizione del fantasma di Marley, il vecchio socio di Scrooge, e dei tre Spiriti – non è che un artificio narrativo. Per un uomo che non conosce rimorso, l’intervento del meraviglioso incarna lo scavo memoriale che è necessario al pentimento e alla risoluzione del cambiamento. I tre viaggi di Scrooge – due nel tempo, uno nello spazio – altro non sono che l’oggettivazione narrativa di una proiezione di sé nel passato. Scrooge è crudele perché la sua esistenza è basata sulla rimozione dei contesti, del tempo e dello spazio intorno a sé. Basta porlo di fronte alla fatale esistenza di queste due coordinate per provocare il crollo del suo castello di carte (o meglio, di monete).
È utile leggere tutto il Canto di Natale all’insegna dell’opposizione passato/presente (includendo il futuro come un “presente possibile”) e caldo/freddo. Ci sono altre polarità, è vero: proprio perché A Christmas Carol è un racconto esplicitamente allegorico. Vale la pena di ricordare che si innesta sulla tradizione inglese delle moralities, rappresentazioni teatrali di argomento morale o religioso a scopo didattico, caratterizzate spesso da componenti orrorifiche o scatologiche: il modello si applica soprattutto per l’apparizione del terzo spirito, quello del Natale futuro. Ma non dobbiamo dimenticare che, nonostante la fortissima carica di disperazione, povertà e crudeltà, si tratta sempre di un Canto. Non ha caso Dickens ha chiamato i suoi capitoli «Strofe»: ogni viaggio e ogni apparizione suonano lo stesso tema – il percorso della redenzione – con uno strumento diverso – la memoria, la spazialità e l’altro, la paura della morte.
Il risultato è la trasformazione di un uomo. Il messaggio più bello di Dickens è proprio che il segno di questa trasformazione è nel recupero della socialità: Scrooge, in partenza, è un gelido Io che fagocita l’altro imponendogli il proprio sistema di valori; alla fine del Canto di Natale, Scrooge ha capito che la felicità più autentica è quella che si realizza nell’altro per irradiare infine su di lui la propria luce. Diventando un secondo padre per il piccolo Tim («Tiny Tim») Cratchit, l’avaro di sempre si sottrae alla schiera dei suoi fratelli letterari – l’Euclione plautino, l’Arpagone di Molière, il Pantalone della Commedia dell’Arte – per tornare uomo tra gli uomini, realizzando quello che per di Dickens è lo spirito più autentico del Natale.
Laura Ingallinella
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