Mr. Gwyn
di Alessandro Baricco
I Narratori Feltrinelli, 2011
pp. 160
€ 14
A me il primo Baricco piaceva. Forse perché mi ero fatta l'impressione che I castelli di rabbia aprisse a una nuova sperimentazione; o perché Oceanomare mi aveva commossa per lirismo e stile; o perché Novecento è un monologo tanto denso da trarvi una serata teatrale di due ore col grande Foa, o un film splendido quale La leggenda del pianista sull'oceano. Poi qualcosa si è infranto, e non c'è stato niente da fare. Se ho salvato poche pagine di Seta, la mia ammirazione è andata via via disfacendosi, perché più il caso Baricco faceva parlare di sé, e più le architetture narrative si facevano evidenti (vogliamo parlare di Questa storia, di Sangue o del tentativo quantomeno strampalato di ri-raccontare l'Iliade?). Anche il reinventarsi saggista con I barbari non ha suscitato gli effetti sperati (si legga, ad esempio, la polemica di Ferroni in quell'irriverente e godibile librettino collettivo di critica militante Sul banco dei cattivi, Donzelli 2006): o meglio, ha fatto parlare di sé abbondantemente, ma nessuna osannazione.
Poi, la svolta. Qualcosa si è incrinato, e se Emmaus è stato il primo sentore del cambiamento, Mr. Gwyn pare confermare quanto temevo: Baricco è il trasformista della letteratura italiana (vera o presunta) degli ultimi anni. Indubbio affabulatore di talento, dalla fantasia invidiabile, confeziona le sue storie secondo quanto detta il trend del mercato. Non posso e non voglio pensare, infatti, che la prima sperimentazione stilistica si sia estinta tutta nelle prime prove; più probabile, invece (e prurtroppo), che lo stile così rientrato nell'italiano dell'uso medio - senza voli lessicali né sintattici, senza artifici retorici più o meno celati -, è più probabile che questo stile punti ad accattivarsi un pubblico più esteso. Un pubblico, per intenderci, che cerca solo una storia godibile, e poco importa come sia scritta; o, se importa, importa che la storia si faccia leggere bene, senza intoppi per sfogliare un dizionario. E questo Mr. Gwyn non fa mai aggrottare la fronte: scivola bene di capitolo in capitolo, ammicca quanto basta per conquistare il lettore appassionato di storie, ma il risultato è fin troppo facilmente accusabile di gigioneria da parte di un critico qualsiasi.
Di che tratta il romanzo? Muove dall'eterna lotta dello scrittore (Mr. Gwyn) per affermare la propria indipendenza dalla scrittura. Rivendicazione inutile, soprattutto se per la nuova vita, Gwyn decide di diventare un copista; o meglio, di fare ritratti. Fin qui, niente di nuovo: ma se i ritratti sono dipinti a parole, in uno studio illuminato da lampadine fatte a mano, e i modelli camminano nudi, senza parlare, per ore davanti allo scrittore-ritrattista? A spogliarsi è la loro realtà interiore, resa manifesta da comportamenti inattesi, piccoli gesti inconsci, o anche solo dal loro modo di vivere il silenzio e di riflettere così a lungo tra sé. E, attorno ai ritratti, si realizzano rapporti sociali da ripensare, amicizie vere (come quella tra Gwyn e il suo agente), ma anche morte, frustrazione, ipotesi di fallimento, ...
Tutto questo, sia chiaro, è ben poco problematizzato. I personaggi di Baricco vivono in un mondo astorico, in cui solo la ricerca di sé e della propria affermazione sembrano rilevanti. Se si sfogliano anche le pagine dei vecchi libri, i protagonisti vivono la loro storia, senza mai partecipare della Storia o dei tempi, o dei luoghi dove si ambienta l'azione. Ammesso che si possa parlare di ambientazione. Piuttosto, se chiamata a parlare per metafore, penserei a un gigantesco occhio di bue puntato a illuminare i personaggi (non solo il protagonista), con una luce poco impietosa ma diretta, pronta a sfumarsi su quegli spigoli che potrebbero levare ogni incanto. Una luce, sì, determinata a non rompere l'incanto della letteratura quale evasione, e mai come invasione.
Gloria M. Ghioni
Poi, la svolta. Qualcosa si è incrinato, e se Emmaus è stato il primo sentore del cambiamento, Mr. Gwyn pare confermare quanto temevo: Baricco è il trasformista della letteratura italiana (vera o presunta) degli ultimi anni. Indubbio affabulatore di talento, dalla fantasia invidiabile, confeziona le sue storie secondo quanto detta il trend del mercato. Non posso e non voglio pensare, infatti, che la prima sperimentazione stilistica si sia estinta tutta nelle prime prove; più probabile, invece (e prurtroppo), che lo stile così rientrato nell'italiano dell'uso medio - senza voli lessicali né sintattici, senza artifici retorici più o meno celati -, è più probabile che questo stile punti ad accattivarsi un pubblico più esteso. Un pubblico, per intenderci, che cerca solo una storia godibile, e poco importa come sia scritta; o, se importa, importa che la storia si faccia leggere bene, senza intoppi per sfogliare un dizionario. E questo Mr. Gwyn non fa mai aggrottare la fronte: scivola bene di capitolo in capitolo, ammicca quanto basta per conquistare il lettore appassionato di storie, ma il risultato è fin troppo facilmente accusabile di gigioneria da parte di un critico qualsiasi.
Di che tratta il romanzo? Muove dall'eterna lotta dello scrittore (Mr. Gwyn) per affermare la propria indipendenza dalla scrittura. Rivendicazione inutile, soprattutto se per la nuova vita, Gwyn decide di diventare un copista; o meglio, di fare ritratti. Fin qui, niente di nuovo: ma se i ritratti sono dipinti a parole, in uno studio illuminato da lampadine fatte a mano, e i modelli camminano nudi, senza parlare, per ore davanti allo scrittore-ritrattista? A spogliarsi è la loro realtà interiore, resa manifesta da comportamenti inattesi, piccoli gesti inconsci, o anche solo dal loro modo di vivere il silenzio e di riflettere così a lungo tra sé. E, attorno ai ritratti, si realizzano rapporti sociali da ripensare, amicizie vere (come quella tra Gwyn e il suo agente), ma anche morte, frustrazione, ipotesi di fallimento, ...
Tutto questo, sia chiaro, è ben poco problematizzato. I personaggi di Baricco vivono in un mondo astorico, in cui solo la ricerca di sé e della propria affermazione sembrano rilevanti. Se si sfogliano anche le pagine dei vecchi libri, i protagonisti vivono la loro storia, senza mai partecipare della Storia o dei tempi, o dei luoghi dove si ambienta l'azione. Ammesso che si possa parlare di ambientazione. Piuttosto, se chiamata a parlare per metafore, penserei a un gigantesco occhio di bue puntato a illuminare i personaggi (non solo il protagonista), con una luce poco impietosa ma diretta, pronta a sfumarsi su quegli spigoli che potrebbero levare ogni incanto. Una luce, sì, determinata a non rompere l'incanto della letteratura quale evasione, e mai come invasione.
Gloria M. Ghioni