Caro Michele
di
Natalia Ginzburg
Einaudi
Tascabili, Torino 2001
Con
prefazione di Cesare Garboli
€ 9.50
pp.
186
1^
edizione: Mondadori, Milano 1973
Con
Caro Michele siamo lontani anniluce dal romanzo familiare che
dieci anni prima aveva proclamato la grandezza della Ginzburg: il
“lessico familiare” di Caro Michele non ha mai un gergo
affettuoso e caldo da nicchia ristretta; semmai è l'esatto
contrario. Le lettere che compongono il romanzo sono l'attestazione
annichilita di quanto sia difficile (perlopiù impossibile)
comunicare davvero: autoreferenzialità, opportunismo, lamentele
vittimistiche, preghiere inascoltate e senza risposta, in quella che
Garboli definisce giustamente
«una famiglia dispersa e divisa senza alcuna ragione. Simili a schegge, a frammenti scagliati nel vuoto da un'esplosione così silenziosa da sembrare piuttosto una inspiegabile malattia, i personaggi di Caro Michele non sanno e non possono più riconoscerci».
In questa perdita di identità o,
meglio ancora, di obiettivi, i personaggi si muovono quali
indifferenti
di una borghesia sterile e priva di valori negli anni '70 (sarà un
caso che il Michele del titolo porti lo stesso nome del protagonista
moraviano?). In questo clima di spaesamento generale, è impossibile
portare avanti sentimenti autentici e, qualora ci si provi, non si
trova riscontro nell'altro. È il caso di Adriana, ad esempio, che
scrive spesso lunghe lettere al figlio Michele, senza arrendersi
davanti alle misere e rare risposte di lui, piene di pretese
economiche e prive di reale interessamento alla vita della madre e
delle sorelle. A un egoista Michele scrive anche Mara, unico
personaggio per cui si può provare una qualche tenerezza: giovane
ragazza-madre, ingenua e poco acculturata, non sa se il figlio è di
Michele, e che cerca una salvezza dalla povertà estrema in cui si
trova. Ma a Michele scrivono anche le sorelle, Angelica e Viola, più
o meno disperate all'idea di dover gestire la depressione della madre
Adriana; e poi c'è Osvaldo, amico fidato di Michele, forse amico
intimo, che cerca di aiutare Mara a trovare un tetto sopra la testa.
Non resta che affidarsi alla “strana, gelida, desolata
consolazione” della memoria, da sempre fondamentale rifugio per la
Ginzburg, e lasciare che i personaggi rimarchino nelle lettere e nei
dialoghi l'importanza del ricordo, soprattutto quando non restano
altre manifestazioni di felicità a cui aggrapparsi (“Ci si abitua
a tutto quando non rimane più niente”, sostiene Angelica verso la
fine del romanzo): si leggano a tal proposito le frasi in chiusura
del romanzo, affidate a Osvaldo.
A
questi personaggi principali si aggiungono comparse minori, come la
zia Matilde o Ada, l'ex moglie di Osvaldo: tutte piccole tessere che
vanno a dare forma a un puzzle dagli agganci narrativi mai forzati,
ma sempre magistralmente gestiti dall'esperienza della Ginzburg.
Risulta
particolarmente acuta la scelta di lasciare ai singoli personaggi
l'occasione di esprimersi direttamente con le lettere, e di ridurre
al minimo le parti dialogiche e narrative (gestite, in ogni caso, da
un narratore di terza persona non intrusivo). In questo modo non ci
sono filtri, né interpretativi e contenutistici né
linguistico-stilistici: i personaggi si esprimono con i loro mezzi,
con le ripetizioni, i costrutti, le zeppe e gli anacoluti tipici
dell'oralità. Tutto si muove con la giusta misura: non ci sono
stereotipi eccessivi, né si percepisce il trucco letterario.
Spontaneità e crudeli ritratti psicologici garantiscono al romanzo
di scampare a qualsiasi già detto.
Gloria M. Ghioni
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