Uno dei volumi di Henry Beyle |
Quartiere
Bovisa, periferia nord di Milano. Nebbia fitta, freddo, il passaggio
del tram scandisce la giornata di quest'angolo di città. La Henry
Beyle occupa un appartamento al piano ammezzato della palazzina al
numero 52 di Via Maffucci. Due stanze separate da un corridoio, in
ogni angolo libri antichi e nuovi, edizioni rare, di pregio e su un
tavolo di vetro le pubblicazioni della casa editrice. Vincenzo Campo
ce le mostra con orgoglio, l'orgoglio di chi ha curato ogni minimo
dettaglio di questi libri che, parole sue, devono «essere piacevoli
come oggetti e al contempo raccontarci una storia».
Il
nome Henry Beyle rimanda chiaramente a Stendhal. Può raccontarci la
storia di questo nome?
Intanto
il nome così come lei lo legge nelle copertine, con la “y” , non
esiste, perché il vero nome di Stendhal è Marie Henri Beyle, quindi
con la “i” e non con la “y”. Nella produzione di Stendhal,
però, esiste un testo, considerato da molti stendhaliani come il suo
vero capolavoro, Henry Brulard.
Nel nostro nome confluiscono dunque due anime: il vero nome di
Stendhal con una piccola smagliatura che rimanda a un'opera di
Stendhal stesso. Va poi detto che lo scrittore francese odiava il suo
vero nome e che Stendhal non fu il suo unico pseudonimo, ne aveva
molti, usati per nascondere e camuffare la sua identità. Noi abbiamo
fatto il contrario: abbiamo utilizzato un nome vero, tenuto nascosto,
per nascondere un nome reale. Ricorrendo ad un’opera di Tabucchi lo
potremmo definire un gioco del rovescio: un nome vero che viene
utilizzato come pseudonimo, come nome editoriale e letterario. È un
gioco, ecco, poi ovviamente in Stendhal trovo motivi di piacevolezza
che non trovo in altri scrittori.
In
un'intervista al «Corriere della Sera» lei non si è definito né
un editore, né un tipografo. Viene quindi spontaneo domandarle qual
è il suo mestiere.
Intanto
il mio non è un mestiere. Un mestiere è un lavoro e nel lavoro, che
è fondamentale, nobilissima attività, c'è il rimando preciso a una
fatica quotidiana che viene svolta a volte con ripetitività e
stanchezza. Dunque in questa mia attività c'è una componente che
non si può associare al lavoro. Allora lei mi dirà che è una
passione, ma neanche questo si addice in pieno; nella passione c'è
una componente etimologica che rimanda alla sofferenza, al verbo
patire ( “la passione di Cristo” è la passione per eccellenza).
Io non provo sofferenza nella gestione della Henry Beyle. Semmai mi
arrabbio ogni tanto per un titolo che non riusciamo a fare o perché
gli aspetti economici assumono una valenza sgradevole. Quindi
mestiere e passione sono due termini imprecisi. Se dovessi dare una
definizione direi che questa impresa editoriale è una storia
sentimentale nella quale si cerca di realizzare un progetto in cui
c’è il desiderio di fare qualcosa che sentimentalmente risulta
appagante. C’è, in questo sentimento, la realizzazione di sé, non
tanto nei suoi aspetti pratici quanto nella sua componente emotiva.
Tenga conto però che in questa realizzazione non conta tanto il
soggetto, non conto tanto io non-editore, ma conta il fatto che io
cerco di realizzare un progetto composto di tante figure e tante
opere che messe insieme costituiscono un unicum:
quello è il ritratto, il frutto della relazione sentimentale. Molto
banalmente, l'hanno detto in tanti, un editore è il suo catalogo.
Contano le scelte che ha fatto, anzi le scelte che ha potuto
concludere. Le potrei fare numerosi esempi di testi che per diverse
ragioni non è stato possibile realizzare. Certo conta il catalogo
che si è riusciti a realizzare, ma non solo. Le faccio un esempio:
Scheiwiller aveva in mente un progetto che io trovo bellissimo,
voleva fare un volumetto che contenesse tutti i titoli che aveva in
animo di pubblicare, ma che non era riuscito a fare; in fondo quella
era l'anima segreta del suo catalogo. Un editore, quindi, è sia i
libri che è riuscito a fare sia quelli, molti, che non è riuscito a
fare e che gli sarebbe piaciuto fare.
C'è
un libro di Carlo Emilio Gadda, uscito per la Piccola Biblioteca
Adelphi, una raccolta di interviste intitolata Per
favore mi lasci nell'ombra, che
potrebbe essere il logo del perfetto editore. L'editore deve stare
nascosto, il vero protagonista è l'autore; il mio lavoro è quello
di individuare, scegliendo un segmento, perché non si può fare
tutto, una linea, e affidare agli autori che pubblico e a quello che
ho scelto tra le loro diverse opere, la mia immagine.
Sul
vostro sito internet (www.henrybeyle.com)
è specificato che le vostre pubblicazioni sono in tiratura limitata,
numerate e fatte con materiali di pregio. Vi rivolgete, quindi, a un
pubblico ristretto. Qual è il suo rapporto con l'editoria di massa?
Partiamo
con una premessa: io ho lavorato come consulente, in prevalenza nel
campo della scolastica, con diversi editori dai quali ho ricavato
un’esperienza di certo molto utile. A un certo punto però mi sono
stancato; volevo creare dei testi diversi e questo è nato, non solo
dal contatto con gli editori, ma anche dal fatto che i libri che
erano in commercio non mi piacevano ( in fondo ogni iniziativa nasce
da un'esigenza simile). Un testo, un libro, e qui naturalmente stiamo
parlando di libri di letteratura, è al contempo un oggetto e una
storia. Affinché un testo sia piacevole, secondo me naturalmente,
deve essere attraente come oggetto e deve contenere e raccontarci una
storia. Deve farci partecipe di quella storia. Senza questi due
aspetti non c'è il libro. A me capita di sfogliare molti libri che
contengono una storia, mentre l'oggetto libro viene quasi sempre
massacrato. Questa mia operazione editoriale la definirei nostalgica,
e prenda il termine alla lettera, da nostos
che vuol dire ritorno, la Henry
Beyle è un viaggio a ritroso, vuole tornare indietro nel tempo, e di
fatti è stato notato, con ironia in un caso, che tutti gli autori in
catalogo sono defunti. Questo perché la mia è un'operazione che è
assolutamente volta al passato, guardo indietro nel tempo e vado a
riprendere scelte tipografiche, metodo di stampa, caratteri,
impaginazione e organizzazione del testo nelle sue parti (dal
frontespizio al colophon) che sono assolutamente fuori dal presente.
Miriamo a un'editoria che non esiste più, vogliamo far rivivere
un'idea di oggetto libro che oggi è scomparsa per le più diverse
ragioni. I libri Henry Beyle sono un prodotto assolutamente
artigianale, che ha l'obiettivo di far rivivere un concetto di
editoria che nel presente, altrove, non c'è (tranne qualche sparuta
eccezione che può essere ad esempio quella eccezionale di casa
Tallone).
Vorrei
sottolineare un'altra cosa: poco fa dicevo che ogni libro deve
contenere una storia, altrimenti si tratta di un esercizio sterile. I
volumi della collana Piccola biblioteca degli oggetti letterari
riprendono titoli che erano fuori catalogo, quindi non si poteva
trovarli in commercio se non all'interno, a volte, delle Opere
complete. Tutti questi testi raccontano una storia affascinante
attorno ad un tema che è quello del libro e dell'oggetto che si
muove attorno alla lettura. Non è una ristampa di un testo che in
ogni caso si potrebbe acquistare altrove scegliendo tra diverse
edizioni, formato, prezzo. Questo testo lo trova soltanto in questa
edizione, quindi il lettore legge una storia impossibile da trovare
altrove, in un formato che rimanda a quanto dicevamo prima a
proposito dell'oggetto libro, che è creato secondo criteri
nostalgici.
L'epistolario tra Alberto Mondadori e Umberto Saba |
Ci
può descrivere fisicamente questo oggetto libro?
Tutti
i libri sono stampati su carta Zerkall-Bütten da 110 grammi che ben
si presta alla composizione monotype. Non si tratta perciò di una
stampa digitale e non esistono versioni PDF dei nostri testi che non
siano rielaborazioni a partire dalla pagina. Sono tutti testi intonsi
in testa: sarà il lettore a decidere se leggerli con una gran
fatica, oppure usare un tagliacarte e tagliare le pagine e infine
sono numerati progressivamente da 1 a 575.
Stiamo
valutando, inoltre, di creare una collana di testi cuciti a mano uno
ad uno, ma è possibile farlo solo quando il numero di pagine è
limitato altrimenti lago, e l’artigiano che lo fa, non riesce a
bucare le pagine. Lo abbiamo già fatto con un testo di Prezzolini
(Primavera a New York,
ndr) che è cucito a mano con un filo dello stesso colore del titolo
di copertina. Ora stiamo valutando anche l'ipotesi di arricchire
questo progetto e farne una collana. Il nemico più atroce di
quest'operazione è il punto metallico, usarlo sarebbe come
dichiarare la propria follia.
Stampe
in monotype, tagliacarte, rilegature con cucitura a mano, mentre il
fenomeno e-book sembra
prendere piede anche nel nostro paese. Che cosa ne pensa?
Operazione
pienamente e totalmente legittima, per molti versi anche
affascinante, che a me non interessa minimamente e che, come disse un
tale, cade ai piedi della mia indifferenza. Chi vuole leggere una
storia lo può fare nei modi che vuole, io non mi impressiono per
nulla. Va benissimo, a me non interessa. Tenga conto che la nostra
non è un'operazione pionieristica, io non vado incontro al futuro,
la mia, mi ripeto, è un'operazione nostalgica che raccoglie il
desiderio di un ritorno a un'idea che non esiste più, se vuole
un'operazione velleitaria che nasce già sconfitta. Ma vorrebbe
accarezzare la nobiltà della sconfitta. Siamo agli antipodi della
tiratura di massa, non siamo nel presente: lei è venuto qua, ma in
realtà è venuto a conoscere un tempo che non esiste più. Noi siamo
una casa editrice che, se vuole scioccamente, non guarda avanti, ma
solo ed esclusivamente indietro.
Quali
sono i criteri con cui sceglie i testi da pubblicare?
Innanzitutto
non si tratta della creazione di un oggetto bello e punto. Questa
seconda cosa che le vado a dire è importante quanto la prima. Tutti
i testi sono scelti secondo un criterio ben preciso: nell'operazione
di ripescaggio c'è l'obiettivo di rendere l'onore delle armi ad un
'autore o comunque a un titolo, naturalmente dico alcuni perché
autori come Saba hanno un’importanza canonica e non hanno bisogno
della Henry Beyle. È un'operazione di scavo che vuole creare un
connubio tra un testo creato in una veste assolutamente particolare e
un'opera che rivede la luce e che lei legge anche con il piacere
della scoperta. Questo secondo aspetto per me è fondamentale; per
farle un esempio potrei pubblicare I
promessi sposi e sarebbe un'edizione
elegante di un grande classico. Ma non mi interessa: la bellezza
dell'oggetto libro deve coniugarsi comunque col proporre al lettore
una cosa che altrove non c'è. Non sceglie solo un oggetto, ma un
testo. Poi ovviamente se una collana si chiama Piccola
biblioteca degli oggetti letterari(l'altra
meno affollata è la Piccola
biblioteca dei luoghi letterari, ndr)
i testi al suo interno devono essere ad essa coerenti. Quindi un
testo di un autore noto che racconti una storia, che sia gradevole,
che non sia in commercio, che meriti la possibilità di una nuova
vita e che ruoti intorno al tema del libro e dell’oggetto da
lettura: sedia, scrivania., occhiali, macchina da scrivere.
Un'ultima
cosa che, me lo conceda, guarda al futuro. Ci può anticipare i
prossimi progetti di Henry Beyle?
Certamente.
Il prossimo testo che pubblicheremo, in uscita intorno alla prima
decade di febbraio, si intitola Della
mia vita fino a oggi raccontata dai lettori stranieri,
ed è un'autobiografia di Elio Vittorini, comparsa per la prima volta
in una rivista della casa editrice Bompiani, Pesci
rossi
e sarà il dodicesimo volume della
Piccola biblioteca degli oggetti
letterari. A marzo, poi, uscirà un
testo di Valentino Bompiani sul mestiere dell'editore, sempre in
questa collana degli Oggetti letterari per la quale le anticipo un
altro testo in fieri,
che non sappiamo quando uscirà, un'antologia sulle scrivanie.
Come
può vedere, quindi, questa collana ha due anime: libri che parlano
di libri e oggetti letterari veri e propri come la scrivania, il
sedile di Munari o la macchina da scrivere al centro di un
epistolario tra Alberto Mondadori e Umberto Saba che abbiamo
pubblicato nello scorso novembre.
L'intervista
è terminata. Salutiamo Vincenzo Campo. Da via Maffucci 52 rientriamo
nel presente del 2012. Il tram della linea 2 percorre la sua strada
con estrema lentezza a conferma dell'esistenza di una Milano diversa,
distante dai lustrini della moda e dalle olive degli apericena; una
Milano appassionata, lenta e che guarda al passato come a un tesoro
da valorizzare: è la Milano di Henry Beyle.
Alessio Piras