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La luna e i falò di Cesare Pavese

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La luna e i falò
di Cesare Pavese
Einaudi Tascabili, 2005

pp. 212
€ 10.50

1^ edizione: 1950
  
«La luna e i falò è il libro che mi portavo dentro da più tempo e che più ho goduto a scrivere. Tanto che credo che per un pezzo – forse per sempre – non farò più altro»: così scrive Pavese il 30 maggio 1950 nella lettera che indirizza a Mario Camerino.
Lo scrittore, sempre capace di un non comune distacco critico verso la sua opera, è ben consapevole di aver raggiunto in questo testo, pubblicato poco prima della tragica morte, la summa perfetta degli elementi fondanti la sua narrativa. A partire dal passato mitico che rifiuta di scendere a patti col ricordo che si ha di esso («Il grande tema di Pavese: la dolce stagione irrevocabile, la bella estate, il paradiso perduto, la luna», per dirla con il giornalista e scrittore Davide Lajolo), passando per le fievoli speranze di riappropriarsi di una vita sempre più passiva spettatrice di se stessa, fino all'amore premessa di un puntuale abbandono

Se fosse lecito parlare di “pavesismo”, esso si rivelerebbe in ogni pagina di questo capolavoro pubblicato nella primavera del 1950. Qui Pavese ci accompagna per mano nel suo complesso universo letterario, si mette a nudo nei suoi rovelli interiori e nelle sue speranze. Il filtro tra autore e personaggi è sempre più sottile, alcune figure che si muovono sullo scenario romanzesco hanno precisi referenti biografici e non è difficile scorgere lo scrittore stesso un passo dietro le parole pronunciate da Anguilla o da Cinto.
Beninteso, cedere alla mania di rintracciare a ogni modo persone reali alla base della finzione letteraria sarebbe deleterio. Significherebbe smantellare un edificio bellissimo solo per il presuntuoso desiderio di capire da dove sono state prelevate le pietre che lo compongono. Annullare ogni distanza tra vita e letteratura è sempre un errore da evitare. Tuttavia, sebbene non vi sia una pura sovrapposizione di esperienze vissute nella pagina pavesiana, numerosi sono gli elementi – poi trasposti in invenzione letteraria – tratti dalla realtà.
Nuto, personaggio ispirato all'amico d'infanzia Pinolo Scaglione, è uno dei soggetti su cui si impernia l'intero romanzo; o meglio: Nuto è l'altro capo del filo, è il polo che insieme ad Anguilla attiva un'incessante flusso di memorie e ricordi che innervano la narrazione.

Il libro si apre col ritorno di Anguilla nel paese natio. Emigrato in America – e qui vissuto per anni – è ora, dopo la Liberazione, un uomo dotato di una gratificante posizione sociale ed economica. È un ritorno che si tinge da subito di amarezza: «Ma non mi ero aspettato di non trovare più i noccioli. Voleva dire ch'era tutto finito». E poco dopo: «Capii lì per lì cosa vuol dire non essere nato in un posto, non averlo nel sangue, non starci già mezzo sepolto insieme ai vecchi». L'elemento di estraneità è un marchio impresso già nelle pagine iniziali che andrà definendosi in forme e modi diversi lungo tutto l'arco della storia. Nelle righe citate il riferimento è alla difficile condizione di chi non conosce i propri genitori, di chi si trova a crescere e a vivere in un determinato ambiente per cause accidentali. Anzi, le cause sono qui il riflesso delle difficili condizioni dei contadini piemontesi nell'anteguerra: se il protagonista trascorre la sua infanzia tra i campi della Piana di Santo Stefano Belbo (che nel romanzo muta nome in Collina del Salto) è perché Virgilia e Padrino lo hanno adottato al fine di intascare le cinque lire che il municipio pagava in questi casi. Una vita grama, quindi, che nella rievocazione nobilitante del ricordo perde ogni connotazione sociale e si fa simbolo di un'epoca incontaminata e vitale, un mondo mitico vissuto con la leggera spensieratezza della gioventù, estraneo a al filtro razionale che, bergsonianamente, cristallizza e blocca il flusso vitale.
L'estraneità della condizione esistenziale fa il paio con la debole e per certi versi rinunciataria visione storica del protagonista, messa in risalto per contrasto dalle parole di Nuto, per lui una sorta di guida durante la prima adolescenza (« “[...] Lascia stare le cose come sono. Io ce l'ho fatta, anche senza nome” “Tu ce l'hai fatta – disse Nuto – e più nessuno osa parlartene; ma quelli che non ce l'hanno fatta? [..] Non bisogna dire, gli altri ce la facciano, bisogna aiutarli” »). Nuto era l'uomo che Anguilla sarebbe voluto diventare, la promessa che sarebbe stato possibile resistere – a testa alta e col sorriso sul volto – in un paese da cui si voleva a ogni costo fuggire: «Per lui il mondo era una festa continua di dieci anni, sapeva tutti i bevitori, i saltimbanchi, le allegrie dei paesi».
Il mancato senso di appartenenza, alla vita come alla società, è anche declinato da Pavese come critica al modello capitalistico e industriale incarnato nel suo massimo grado dalla società statunitense. Il trionfo dell'incomunicabilità, di un paese troppo vasto per poter conoscere i suoi abitanti, e perché questi possano conoscersi tra loro. E di nuovo si fa forte la nostalgia per l'erba e i rospi dei campi in cui si è cresciuti.

Nei trentadue brevissimi capitoli lo scrittore alterna rievocazione di vicende passate e narrazione di un presente che, comunque, assume un andamento ciclico, riconducibile sempre a un passato che si evolve in futuro ripetendo eternamente se stesso. Qui sta una ferita lacerante, un dissidio che non è consentito sanare:
«era strano come tutto fosse cambiato eppure uguale”.
Cinto, il giovanissimo ragazzo zoppo e rachitico figlio del mezzadro Valino, è il passato che ritorna. In lui il protagonista si identifica e nei suoi gesti e nelle sue movenze vede se stesso. Riconosce la disperazione che gli spegne la voce e gli incendia lo sguardo, in suo padre vede la disumanizzazione imposta da un lavoro brutale compiuto, come direbbe Nuto, per permettere al ricco di turno di rafforzare i propri agi e privilegi. E sarà proprio il padre di Cinto a imprimere al libro una svolta tragica. Questi, esasperato dalle esose richieste della madama della Villa, cade preda di un'ira incontrollata che lo porta ad appiccare il fuoco alla casa, a colpire a morte Rosina e la nonna, e a impiccarsi dopo aver inutilmente tentato di scagliarsi contro il ragazzo.
Le mortifere e sterili fiamme dell'incendio si oppongono, a ben vedere, alle fiamme rigeneratrici dei falò della notte di San Giovanni la cui immagine ricorre più volte nel romanzo. Da una parte la realtà, arida e spietata, che brucia, in una raggelante combustione, ogni speranza di riscatto e ipoteca sotto la sua cenere l'avvenire di chi è costretto a muoversi entro una logica di sopraffazione e obbligata ignoranza, l'ignoranza che Nuto auspica di veder svanire per lasciare il posto a una “coscienza di classe” che dia l'idea piena delle condizioni in cui si vive e, conseguentemente, la forza necessaria per rompere le consuetudini che garantiscono tale ordine di cose; dall'altra parte il sogno, il mito, le fiamme reali che trasfigurano in ricordo e poesia, in superstizioni irrazionali in quanto tali ma capaci di riattivare il contatto, flebile e momentaneo, con un eden perduto che è l'infanzia del mondo non meno del mondo dell'infanzia. Fuoco che dà vita, insomma, a ciò che il fuoco brucia: «Eppure, disse lui, non sapeva cos'era, se il calore o la vampa o che gli umori si svegliassero, fatto sta che tutti i coltivi dove sull'orlo si accendeva il falò davano un raccolto più succoso, più vivace».
È opportuno ora aprire una breve parentesi sulla concezione che Pavese ha del mito. Esso, lo chiarisce l'autore in un articolo inviato in questo periodo alla rivista «Cultura e realtà», non ha nulla che vedere con un linguaggio mistico o estetizzante. È piuttosto da intendere, scavando sotto le sue manifestazioni narrative eminentemente liriche e allegoriche, come frutto di riflessioni storiche su cui poi germoglierà una precisa poetica. Il mito essenzialmente si caratterizza in negativo, come mancanza, come ciò che resta dopo che qualcosa è stato tolto. E a esser stato tolto è nello specifico, il suo «alone religioso», perché «possedere vuol dire distruggere». Una volta trasposto in poesia, in letteratura, «allora comincia la vera sofferenza dell'artista; quando un suo mito s'è ormai fatto figura, e lui, disoccupato, non può più crederci ma non sa ancora rassegnarsi alla perdita di quel bene, di quell'autentica fede che lo teneva in vita, la ritenta, la tormenta, se ne disgusta». Un po' come le “illusioni” leopardiane dopo che sono svanite sotto i colpi della razionalità, in un certo senso. Un po' come il disorientamento che si prova dopo che la scienza ci ha informato di vivere in un piccolo pianeta tra i miliardi di pianeti esistenti, dopo che la Terra si è ridotta a insignificante “pallottolina”.

Per quanto riguarda invece le pagine dedicate alla rievocazione dell'infanzia alla cascina della Mora, l'autore incentra il discorso su tre figure che hanno assunto lo status di simbolo della concezione incantata e ingenua che il protagonista – e Pavese stesso, stando alle lettere scritte durante i primi anni del liceo – aveva della donna negli anni della pubertà. Ma dietro i personaggi di Irene Silvia e Santa, figlie del sor Matteo proprietario della cascina, vanno colti importanti aspetti che trascendono la percezione quasi 'sacrale' che Anguilla aveva di loro. Si riscontra, neanche troppo tra le righe, una nota di misoginia che è stata troppo spesso rimproverata a Pavese da una critica non in grado di compiere il passaggio necessario tra righe di un romanzo e i motivi esistenziali e reali che sostanziano il serbatoio da cui lo scrittore ha attinto le righe in questione. Lajolo, più volte citato, dedica due capitoli del suo volume Il “vizio assurdo” al rapporto tra il piemontese e la presenza femminile. È un rapporto che conosce una fase di assoluta fascinazione e completezza fisica e mentale, un bruciante ardore amoroso (diretto verso la “donna dalla voce rauca” nelle poesie di Lavorare stanca) destinato però a lasciare il posto, in seguito a una serie di abbandoni e disillusioni, a frequenti accenti di disprezzo e, appunto, a innegabili punte di misoginia. “Le altre donne come vendetta” è il sintetico e incisivo titolo di un capitolo del volume succitato.
Ben più importante, però, è l'aspetto sociale che richiama il ricordo delle tre bellissime ragazze della Mora. Queste permettono infatti la negazione del fatalistico refrain secondo cui la loro condizione di “signorine della cascina” sarebbe stata esempio di irraggiungibile stabilità e benessere. Tutte andranno incontro a una fine tragica, tradite proprio dall'amore che si erano illuse di aver imparato a conoscere dai vetusti libri di favole, simbolo di un'elitaria visione borghese che non tiene il passo con la realtà. Realtà che irrompe in modo brutale e spietato nel finale del libro, portando con sé la drammatica esperienza degli scontri tra fascisti e partigiani. Il libro si chiude con un altro falò, rievocato da Nuto: quello che incenerisce il corpo di Santa, prima creduta staffetta partigiana dotata di coraggio e dedizione alla causa e poi rivelatasi una spia per conto delle camicie nere. Queste incursioni “realistiche” non devono trarre in inganno. Pavese si muove soprattutto in una dimensione metastorica, e anche quando figurano e acquisiscono peso narrativo precisi avvenimenti reali siamo comunque molti distanti dal neorealismo in senso stretto. La base su cui crescono i suoi romanzi non è la pura e “cronachistica” realtà storica.
Nel fuoco tragico che illumina le ultime pagine del romanzo si ode il grido di un'impossibilità e di una mancanza. Il lettore prende atto, cioè, che nessun eden è possibile, che nessun luogo geografico o temporale è davvero incontaminato. Si palesa l'implacabile fallimento di quello slancio vitalistico che implica l'evasione, la fuga anche, nella speranza di potersi radicare in un altrove estraneo alla ripetizione degli eventi e alla meschinità di un insignificante angolo di mondo. Si scopre cioè che l'inappartenenza, la violenza e le sopraffazioni rappresentano una condizione esistenziale da cui non è concretamente possibile fuggire. Le uniche fiamme che possono esistere sono ormai quelle distruttive che lasciano cenere e non dischiudono sogni.
Con questa angosciante constatazione termina l'opera più intensa e spietata di Cesare Pavese. Di qui a poco il suicidio e il biglietto con le sue ultime parole:
«Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi».

Marco Giorgerini