LETTERE A CLIZIA: l'occasione di un amore perduto


Lettere a Clizia
di Eugenio Montale
Arnoldo Mondadori, 2009

€ 25
pp. XLV-376

Un amore sbocciato dietro una scrivania, tra scaffali di libri e riviste, un amore raccontato in due lingue, inglese e italiano; nascosto nel sottoscala dei timori, negli eccitamenti da ragazzini che cercano di non tradire né gli altri né sé stessi ma che finiscono col tradire qualunque certezza, qualunque apologia alla vita fatta precedentemente; un amore portato avanti all’ombra di un suicidio, accresciuto dai baci e dalle lacrime di 156 lettere. Tante le missive che Eugenio Montale inviò a Irma Brandeis, giovane studiosa americana, esperta dantesca e italianista che raggiunse l’Italia dal lontano continente nel 1933 per intervistare e conoscere l’autore di Ossi di seppia, da poco direttore del Gabinetto Scientifico Letterario Viesseux. Tra i due nacque subito quell’intesa destinata a trasformarsi in passione e a sopravvivere, pur boccheggiando nella distanza, per sette lunghi anni. Le prime lettere, scritte dopo che Cupido aveva scoccato la freccia e colpito i cuori di entrambi con un solo lancio, contengono già parole malinconiche, speranze e preghiere per un prossimo incontro o lamentazioni in previsione di dodici mesi di solitudine. Irma aveva dovuto lasciare l’Italia alla fine dell’estate, dopo aver trascorso dolci giorni in compagnia del poeta.

Montale è sopraffatto dalla presenza di quella donna nel suo pensiero. “Sto tutto il giorno in tua compagnia”, le scrive.
Eppure è un “cattivo epistolografo”, o così almeno si definisce. Il lavoro lo soffoca e il tempo che gli resta è minacciato dalla stanchezza che ringhia contro il desiderio di scrivere. Non c’è però un solo giorno di silenzio che non venga compensato da epistole lunghe e dalle litanie romantiche di un uomo “guilty”, “guilty of loving”, come Montale stesso si definisce. E sebbene le lettere di Irma non si siano conservate, non è difficile ricostruire l’intero loro dialogo. La donna che si cela dietro il nome di Clizia in tutte le poesie delle Occasioni, ne viene fuori generosa, paziente e insieme severa. Miss Gatu, come la chiama a volte l’amante (lui, invece, è Mr Ratu), vuole essere apprezzata, inseguita, e al tempo stesso lasciata libera di piangere in silenzio le proprie tristezze, le malattie, la morte del padre, senza stare immobile alla finestra in attesa di una lettera consolatoria. Eugenio no, Eugenio resta in attesa, apre continuamente la cassetta della posta, conta i giorni che lo separano da una possibile risposta dell’amata, immagina il percorso delle lettere, le immagina attraversare l’oceano, perdersi, finire dimenticate prima di giungere a destinazione, e intanto scrive e racconta in poesia delle loro passeggiate lungo la costa ligure, dei loro occhi attenti sui cavalli del Palio, del loro saluto e del loro addio alla stazione. Un addio che ha il profumo di un “goodbye”, no di un “farewell”.
Mai come in queste epistole, Montale appare goffo, ansioso, incapace di mantenere la calma anche se impensabilmente passionale. Si sente inutile, eppure continua a inginocchiarsi di fronte a Clizia, di fronte alla sua immagine, al suo ricordo, alle fotografie che la prega di inviargli, confessandosi innamorato almeno come John Keats lo fu di Fanny Browne, sebbene le sue lettere manchino di perfezione e le sue parole non abbiano la forza dirompente dei suoi versi. Sono claudicanti, al contrario, i periodi bloccati dalla punteggiatura, dalle sospensioni, dalle allusioni che si celano dietro numeri, date, e da un utilizzo dell’inglese impreciso e incostante. Alcune lettere sono scritte interamente nella lingua di Irma, in altre il poeta gioca intervallando all’italiano articoli, termini e verbi stranieri. Cerca, forse inconsapevolmente, di far accettare i suoi difetti all’amata, di farle capire che non desidera altro se non avvicinarsi a lei, se non entrare nel suo mondo. E impazzisce quando non si sente ricambiato. Basta che lei non gli scriva per una settimana, e nascono timori, sospetti, angosce.
“Mi avevi detto che scrivevi ogni settimana, come ho sempre fatto io, bene o male; e invece... Ti prego di togliermi da questa perplessità che m’impedisce di diffondermi a lungo. Sai che ti voglio bene, più bene di prima, ma ci sono dei giorni, come questo, in cui privo di notizie, pieno di freddo, di guai e di malinconie, io non riesco a vederti - e starnazzo nel buio come un pipistrello. Ti voglio bene e non ti vedo. Sei viva? Esisti? Che cosa sta macchinando l’ignobile destino? Non è questione di fede; io ho fede in te; benedico il giorno in cui t’ho incontrata.”
In realtà, mente, a Irma e prima di tutto a sé stesso. Lo testimonia anche l’attacco di una poesia di Altri versi
“Ho tanta fede in te / che durerà / (è la sciocchezza che ti dissi un giorno) / finché un lampo d’oltremondo distrugga / quell’immenso cascame in cui viviamo”.
Montale non appare come un uomo di polso, come un uomo di fede, ma un poeta che si ostini a vivere sull’orlo di una scogliera, nell’indecisione di gettarsi. Le braccia di Irma lo avrebbero accolto, prima o poi: questa la menzogna in cui si crogiola. Suo desiderio è quello di trasferirsi in America e lasciar perdere l’Italia, il lavoro al Viesseux, le umiliazioni che continua a subire pur di guadagnarsi il pane. Montale si sente spezzato, interrotto.
“Io non ho una vita; perhaps neppure una vita interiore. Mi sento vivo solo quando penso che tu esisti, e cerco di pensarci un po’ meno di quanto potrei perché di questa vita si muore (oggi) nella mia morte sono invece, materialmente vivo.”
Simili inquietudini molestano Irma. Lei dubita che l’uomo, non il poeta, sia in grado di amarla davvero, che sia in grado di fare il grande passo e lasciar tutto per raggiungerla. Forse spera in un matrimonio, in una famiglia. Sommersa da versi, dall’entusiasmo artistico dell’amante, cede il più delle volte alla bellezza della poesia di cui si sa ispiratrice, ma neanche per due che vivono di letteratura la letteratura può essere sufficiente. A rendere la situazione ancora più difficile è oltretutto la presenza di una seconda donna, Drusilla Tanzi (soprannominata Mosca), cioè la compagna e convivente di Montale. Sono le sue minacce di suicidio a far tremare definitivamente un rapporto già difficile. La donna sa che Eugenio la tradisce, che per due estati, quella del ‘33 e quella del ’34, ha incontrato di nascosto Irma Brandeis e ne ha fatto la sua amante. Di Mosca Montale non fa mai il nome. La chiama semplicemente X e fa di tutto per non parlare di lei a Irma. Eppure, dopo il loro secondo incontro, la verità viene a galla, di nuovo, e con prepotenza.
“Un’altra donna si sarebbe scoraggiata e m’avrebbe mandato all’infero: tu no e t’ho amato di più anche per questo. Poi ci siamo riveduti e X ha sempre saputo tutto [...]. Ha saputo e sa, per intenderci, che volevo, che voglio sposarti, o in Italia o in America, e più presto che sia possibile, e che tu sei tutto per me e che questa Estate l’abbiamo passata tutta insieme, a Firenze e fuori.”
Ma X ha sempre avuto “il coltello dalla parte del manico” e Montale non può lasciarla. Le sue pressioni lo atterrano, lo costringono a scrivere lettere sempre più deliranti, ma che non trovano fine. Per anni ancora il rapporto epistolario fra Eugenio e Irma non si interrompe; continua ad arricchirsi di richieste, di piccoli disegni, di auguri per Natale, per Capodanno, di riferimenti ad amici scrittori, e lamentazioni varie, dense di patetismo, come questa: 
“E se non mi vorrai, non preoccuparti di me e non rispondere alle lettere che qualche volta ti manderò, non leggerle, se credi; ma lasciami questa illusione di essere ancora vivo per qualcuno.”
Grazie all’intercessione di un amico comune, come racconta Irma in un appunto del 1979, prima di cedere le sue lettere per una possibile pubblicazione, i due si incontrano un’ultima volta, nel 1938. La guerra è iniziata e Irma, ebrea d’origine, sa che non potrà più tornare in Europa. Montale, d’altro canto, non è così coraggioso o egoista da lasciare Drusilla. Da un uomo incapace di salvare sé stesso, nessuno avrebbe potuto essere salvato, se non con la menzogna. E la realtà apparteneva a quella menzogna; il lavoro, gli impegni presi, gli angoli di cuore già occupati, erano tutte pietre dello stesso anello.
I finestrini del treno si stanno abbassando rumorosamente, come la prima volta. Eugenio segue Irma con lo sguardo, cerca di raggiungerla, ma il passaggio è bloccato a destra. Allora corre, sale sulla carrozza da sinistra, ma non la raggiunge in tempo. Qualcuno accuserebbe il destino avverso, ma il destino prima o poi si accetta. Al giugno del 1981 risalgono, invece, queste ultime parole: 
“Irma, / you’re still my Goddes, / my divinity. / prie for you / for me. Forgive my prose. / Quando, come ci rivedremo?”. 
Mai più, viene spontaneo rispondere. Montale morì pochi mesi dopo, a settembre, lasciandoci, inconsapevole, un patrimonio di umanità, fragilità e bellezza da leggere come il più classico e drammatico dei romanzi.

Flavia Catena