Gli anni falsi
di Josefina Vicens
Angelica Editore, Sassari 2008
pp. 100
€ 10
Rimasi così come diviso in tre: l'erede di te, l'orfano di te, e l'incaricato di accompagnarmi e consolarmi. Il primo viveva la tua vita rassegnato, con il tuo peso sulle spalle; il secondo soffriva per la tua morte e per la sua propria morte, e il terzo, appena nato, torpido, non sapeva se rimproverarti, per darmi sollievo, o soffrire con me la tua assenza. Era un essere dipendente, senza la minima iniziativa, candido, caldo e fedele. Io lo abbandonavo o lo recuperavo, qualche volta a mio capriccio; il più delle volte, al tuo. (p. 64)
Non si può vivere morti, o sì?
(p. 77) Una domanda legittima, che ben si sposa con la concezione
tradizionale della morte in America Latina, ma anche una domanda
crudele che popola le pagine di tanto Novecento internazionale. Nel
1982 l'interpretazione di Josepina Vicens, autrice sconosciuta ai più
in Italia, ora tradotta per la prima volta, ma conosciutissima nel
suo Messico, è controversa e tutt'altro che scontata. A interessare
la scrittrice non è solo il tema della morte, ma il rapporto che con
questa intessono i “sopravvissuti” che hanno amato – e che
ancora amano – il defunto. È proprio la metamorfosi interiore e
dei rapporti sociali tra questi sopravvissuti a dare le prime mosse
al libro: Luis Alfonso Fernández
non solo non accetta la morte del padre, ma arriva a identificarsi
sempre più con lui. Le abitudini, il lavoro e i rapporti sociali del
padre, persino le parole e l'atteggiamento – tutto ricade a
mascherare Luis Alfonso di una vita che non è la sua:
Non era mettermi la tua roba, era vestirmi da te. (p. 23).
Persino
i rapporti con la madre cambiano: Luis Alfonso non è più figlio,
per quanto vorrebbe ancora rifugiarsi nel suo vecchio ruolo
rassicurante, ma è considerato “l'uomo della famiglia”, e quindi
degno degli stessi trattamenti e delle attenzioni che prima la donna
riservava al marito. Non sorprenderà che Luis Alfonso, oltre a
frequentare quasi a suo malgrado gli amici volgari del padre nelle
osterie del paese e a tornare tardi e ubriaco, cercherà l'amore
nell'amante del padre. E proprio dall'avvertimento della concorrenza
paterna, si genera il desiderio di “uccidere il padre”,
freudianamente e non solo:
Se un giorno riuscirai a morire le dirò quanto l'amo. Quanto ti amo, Elena, ah quanto ti amo, Elena, amore, quanto ti amo! Che necessità di rannicchiarmi fra le sue braccia e dirti quanto ti odio, papà, quanto ti odio! (p. 81)
Come
si evince dai passi citati, il vero e onnipresente interlocutore
dell'io-narrante Luis Alfonso è proprio il padre: come estrometterlo
dalla propria vita? Ammesso che di vita si possa parlare, e, ancor
peggio, che si possa rivendicarne la proprietà. Ma non solo.
Josefina Vicens affonda la lama ben oltre l'acredine tematica: fa sì
che l'oscillazione identitaria di Luis Alfonso, ora sofferta ora
quasi masochisticamente compiaciuta, si rifletta anche a livello
narratologico. L'io-narrante, infatti, spesso si sdoppia in un “noi”
che coinvolge il padre, con cui condivide, più o meno
inconsciamente, scelte ed esperienze. Scelta stilisticamente
coraggiosa, non c'è patetismo, né lirismo: la Vicens va scoperta in
questo Duemila perché è un'autrice graffiante, impietosa, analitica
e straordinariamente d'impatto. Spiace che l'autrice sia scomparsa
prematuramente lasciando ai lettori solo questo Los
años
falsos e
l'ancora intradotto El
libro vacío
(1958), che ci auguriamo arrivi presto in Italia.
Gloria M. Ghioni
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