di Paolo Ruffilli
Einaudi, Torino 2011
Dedicata
Sei tu che, dentro,
ti senti dedicata
e pensi e vuoi
che sia così
che ti abbia, io,
cercata
scelta e comperata
come l'oggetto estremo
che pone la mano
del soggetto
congiunta per intero
alla sua offerta,
la parte data
assimilata
alla sua stessa
vivida espressione.
Ed è la cosa
che ti dà
più eccitazione,
quella che lega
nel laccio del piacere
ogni mio sforzo
di colmare il desiderio,
tuo di te, di essere
a fondo declamata
e, declamando,
tenuta e soffocata.
Senza orpelli, senza smancerie, senza difese: questo è l'eros più autentico e puro, poeticizzato da Paolo Ruffilli nella sua ultima raccolta.
Centodieci componimenti d'amore, organizzati in quattro sezioni, per raccontare la difficoltà dell'incontro esistenziale, la pericolosità dell'intreccio emotivo e dialogico, che contraddistingue da sempre il rapporto, strutturalmente inteso e narcisisticamente analizzato, tra uomo e donna.
Siamo al cospetto, dunque, della più classica delle tematiche dell'essere nel tempo, o, meglio, dell'essere senza tempo.
Un amore come quello fraseggiato qui da Ruffilli, iconizza, a tutti gli effetti, una sorta di guerriglia intestina tra le forze seduttive della coppia, in un parossistico ballo primitivo, misto di diffidenza e di attrazione carnale inestinguibile.
Se la conoscenza fisica, come traspare da questi versi, è anche, e soprattutto, conoscenza intellettiva e sentimentale, sembra però che nessuno dei due protagonisti della relazione amorosa qui sviscerata, sia in grado di cedere le armi, di fare un passo consistente verso l'altro.
Traspare, già dalle forme statiche e metricamente canonizzate del verso, fino all'utilizzo idiomatico di una verbalizzazione attonita, quasi da trincea, una sorta di cieca ostinazione alla rinuncia dei sensi, un disimpegno quasi dispettoso messo in atto dall'un amante nei confronti dell'altro, un evanescente ricorso al sentimento stesso del piacere, più estetizzato che vissuto concretamente.
L'eros di Ruffilli è un gioco alla rincorsa, una fuga inesausta e senza quartiere, proprio da ciò di cui, invece, più fortemente e autenticamente, l'autore desidererebbe impossessarsi: ossia l'abbandono ultimo, completo e fisiologico, alla scioglievolezza dei sensi, alla riappacificazione delle passioni.
Riappacificazione in toto implausibile, è vero, dacché l'esperienza umana risulta essere, in nuce, sempre un percorso pericolante e distonico, durante il quale gli stalli della comunicazione possono far sobbalzare i ritmi dell'interiorità in moto centrifugo rispetto a quelli della capacità di esternazione, rimescolando confusamente i desideri rassicuranti e le rivendicazioni oggettive.
Il linguaggio battagliero e quasi violento di Ruffilli fa trasparire una profonda, inconcussa e dolcissima venerazione nei confronti del suo alter ego femmineo, destoricizzata in quanto amena e idiosincratica personificazione di un amore capriccioso ma durevole, a tratti sfuggente e a tratti, invece, bisognoso proprio di poetiche, non necessariamente romantiche, conferme.
Ciò che conta, in questi Affari di Cuore, è la parossistica ingenuità degli approcci sanguigni, il programmatico e reciproco cannibalismo affettivo, e, in special modo, l'eziologica ricerca del concetto di amore tutto contemporaneo, quale catalizzatore ricomprensivo delle pulsioni più private, ardite, primigenee dell'essere umano, quand'esso riesca ad osservarsi fuori di sé e fuori, soprattutto, dal tempo del sé.
Francesca Fiorletta
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