Stupisce che un poeta come Bartolo Cattafi (Barcellona Pozzo di Gotto 1922 - Milano 1979) sia rimasto così a lungo in ombra e che perfino oggi, lodevoli eccezioni a parte, stenti a ricevere l’attenzione critica che merita. Amico, tra gli altri, di Sereni e Raboni, è proprio quest’ultimo che introduce l’antologia Poesie (Mondadori, 2001) dalla quale è tratta la selezione che qui presento.
Data la mole dell’opera di Cattafi (ricordiamo, tra le raccolte, almeno Le mosche del meriggio, 1958, L’osso, l’anima, 1964, L’aria secca del fuoco, 1972, La discesa al trono, 1975, Marzo e le sue idi, 1977, L’allodola ottobrina, 1979 e le postume Chiromanzia d’inverno, 1983, e Segni, 1986, solo per citare le maggiori) ho ritenuto più onesto limitarmi a proporre alcune delle poesie che più mi hanno colpito, pescando certo tra i diversi periodi, ma senza l’ansia di rappresentare tutte le raccolte e le plaquette.
Le poesie di Cattafi hanno una freschezza, un’originalità e una fruibilità di lettura che non abbisogna, credo, di preamboli o introduzioni critiche in questa sede: più che in altri casi, i testi parlano da sé. Nell’introdurle brevemente, tuttavia, mi è impossibile non seguire e sottoscrivere le illuminanti osservazioni di Raboni, che individua in Cattafi un passaggio dalla figuratività delle prime raccolte, col loro ricco cromatismo e descrittivismo, alla figuralità delle ultime, dove prevale una spinta astratta e deformante, più decisamente espressionista, ricondotta da Raboni addirittura alle avanguardie europee, a Beckett e a Kafka. Tipici di Cattafi sono anche il dettato spesso epigrammatico, accelerato, e gli arguti rovesciamenti di prospettiva. Una poesia schietta, vitale senza pose vitaliste, più biologica che storica (si veda la poesia "L’estinzione"), di scoperta senza essere di avanguardia, e pertanto ancora attuale oggi.
Da Le mosche del meriggio (1958)
Da Nyhavn
Non ho molto da dirti, alle ventuno
il mondo comincia a farsi bello
come il globo che pende sulla porta.
Si può bere, ballare,
parlare di cose scollacciate
baciare le statue colorite,
dentro vi bollo bene, nel bordello
di musiche e di mescite. Nessuno
sa che contrabbando compio
col petto tatuato, che tesoro
brucia nella grotta
e che grigia
cartuccia, che miccia nelle mani.
Mi scordo della prora,
domani farò la rotta esatta,
ora ho l’esempio, il budello,
la fame dritta e secca dei gabbiani.
Da L’osso, l’anima (1964)
Soprattutto
Pregustava la mente di svernare
nei nostri luoghi diletti.
Il dispaccio ci colse alla sprovvista:
le più care, le più ricche province
(abitanti fedeli, clima mite,
bella vista sul mare)
d’un sol colpo perdute,
divelto e deriso
il nostro nome.
Un amore più forte, un uragano
aveva spinto i confini sullo sfondo.
Riprendere le fila, ragionare.
Soprattutto
guardare dall’angolo più scomodo.
La vista è opaca. Piove,
distanza, aria perturbata.
Difficile chiarezza è l’umiltà.
Un 30 agosto
Si vide subito che si metteva bene:
eventi macroscopici nessuno,
il sole ad un passo da settembre
diede la prima razione
alle isole di fronte,
il mare mandò lampi di freschezza,
il caldo soltanto fra tre ore,
un immenso celeste, ancora un giorno
per l’uva e gli altri frutti di stagione,
tra i pochi rumori di paese
l’ossigeno sibilando disse
di non farcela più con quel suo cuore.
Di primo mattino la morte di mia madre.
Come vanno le cose
Ti spiattello in faccia
come vanno le cose:
vanno male.
Benché abbia perso lo spirito e la lettera
della fede in quella
sfera che tu conosci,
sono ancora inquieto.
Non mi tornano i conti, le misure, il modo
che il mondo ha di girare.
Ti faccio l’esempio dei consunti
oggetti: i caldi i cogniti
compagni delle nostre stanze
con qualcuno congiurano a mio danno,
mutano volto,
stranieri appena giunti a questa soglia,
allusivi e furbi,
ammiccanti con strane
luci negli occhi,
missive minacciose nelle mani.
E la foglia caduta
Che un giorno colsi col piede e feci mia
S’è staccata,
mi svolazza intorno mi rinfaccia
un corpo pesante
il passo del mio piede.
Da L’aria secca del fuoco (1971)
Gesto
Non è vero che non successe nulla
quando tirasti fuori la mano dalla tasca
e a braccio teso tagliasti l’aria
da sinistra a destra
dall’alto verso il basso
successe che a braccio teso
tagliasti l’aria
e ciò ebbe il suoi peso
l’aria non è più come prima
è tagliata.
Il resto manca
Mancavano pagine
il marmo dell’epigrafe
era scheggiato
due sole parole
cetera desunt
il resto mancante
mancanti la testa e i piedi
e tutto il resto mancante
che testa e piedi divide
cetera desunt…. cetera desunt…
parole sul frontone d’un tempio vuoto
vorticanti col vento come per dirci
solo noi ci siamo
tutto il resto manca
era questo che non sapevate.
Da Chiromanzia d’inverno (1983, postuma)
L’estinzione
In questo momento la vespa
è il nemico
uccidila
e non badare alla fine d’una specie
di strisce gialle e nere
d’ali membranose
d’ago velenoso
tutt’al più vuol dire che domani deserta
la buccia crespa delle mele mézze moriremo
dopo
meravigliosamente dopo la fine delle vespe.
Nebbia a Cimbro
Scende densa la nebbia
su cimbro frazione
di vergiate provincia
di varese via
aprile venticinque al numero
diciotto la nebbia nidifica in lunghezza
profondità larghezza
VARESE CIMBRO VERGIATE
assieme assegna APRILE
coi numeri DICIOTTO VENTICINQUE
sono però così disincarnato
da svincolarmi
pago d’un paio di cose
confuse larvali innominate.
Da Segni (1986, postuma)
Mosca
La mosca ronza
sulla parola mosca
la stuzzica per farla
volare dalla carta
la mosca ignora
che quell’altra mosca
– bisillabo inchiostro sulla carta –
non è più sua compagna
ma nostra.
a cura di Davide Castiglione
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