a cura e con prefazione di Aldo Maria Morace
Ilisso,Nuoro 2002
pp. 186
Ilisso,Nuoro 2002
pp. 186
Trattare con le donne, al di fuori del più e del peggio, è cosa molto difficile, ed io sono convinto che i più di costoro, una volta aperte le porte, finirebbero col ritornare alle carte e alle biglie, che danno piaceri più schietti, e non mettono nell'imbarazzo.(p. 140)
Profondamente ingiuste, alcune bocciature ai premi letterari, specialmente quando in commissione un testo di valore passa sotto gli occhi di grandi quali Croce e Moretti, e questo non assicura la premiazione né la segnalazione del libro. Ma, si sa, concorrono molti elementi a segnare l’affermazione o meno di un’opera. E così il romanzo primo di Satta è tornato nel cassetto dell'autore dove, anni dopo la sua morte, è stato fortunatamente e fortunosamente ritrovato. Infatti, dopo la stroncatura Satta aveva abbracciato la carriera giuridica e aveva ignorato l'invito di Moretti, negli anni '40, a riprendere quel libretto sul sanatorio e a pubblicarlo. Pur apprezzando le attenzioni del poeta, Satta aveva rifiutato raccontando di aver bruciato il manoscritto. Sulla scia del successo del suo Giorno del giudizio, una caccia agli inediti ha invece rivelato che il manoscritto della Veranda era ancora in casa Satta, ben nascosto, e negli anni '80 ne è stata curata la pubblicazione postuma.
Perché la bocciatura?
Alla fine degli anni ’20, era difficilmente apprezzabile un romanzo dedicato all’esperienza sanatoriale, così nudo nel suo portare testimonianza di una coralità abbrutita dalla malattia, e non elevata spiritualmente, come invece volevano certi luoghi comuni ottocenteschi:
Se nel '24 era uscita - con grande successo - La montagna incantata di Mann e attorno al '30 sarà pubblicato in rivista Inverno di malato di Moravia, il Satta della Veranda era troppo crudamente disilluso, e il suo Sondalo non ha niente a che fare con il programma formativo della Zauberberg. Qui gli ammalati che condividono il sanatorio con l'io-narrante non sono uomini, ma certi esseri spersonalizzati, chiamati per toponimi (che indicano la loro provenienza) o soprannomi più o meno cinici (ispirati alle loro disgrazie). Nelle loro discussioni volgari senza freni inibitori, il protagonista, giovanissimo avvocato, non si rispecchia affatto, e diventa difficile, talora impossibile, stabilire una reale comunicazione, che vada al di là del semplice saluto:Sì, confesso, ho provato una certa delusione. Immaginavo gente più mite,
più affinata da questo nostro male. Ma forse è stato più l'errore in
noi di quanto non sia il male in loro. Sono uomini come noi, come tutti,
e i letterati sono degli imbecilli.(p. 48)
Non è una conversazione, questa. Sono parole che rompono dal mondo nel
quale ciascuno si è chiuso; e l'una non risponde all'altra, se non come
nella notte stellata le voci degli animali si rispondono fra loro.(p. 61)
La parziale alienazione del giovane protagonista nella seconda parte dell'opera - parte più scarna a livello di pagine ma dalla notevole tensione espressiva ed emotiva - muta per l'incontro con una malata grave. Amore o infatuazione? La febbre della passione cresce più i sintomi tisici vanno scomparendo:
Chi mai sarà? Cosa vuol dire, questo saluto? Che mi abbia preso per unaltro? E chi sarà quest'altro? Intanto, mentre così almanacco, io sento
che non son più solo, che c'è qualcuno, oltre me stesso, nell'involucro
che mi rinchiude.(p. 128)
L'altalena umorale dell'avvocatino, sconvolto ora da estreme gioie e speranze, ora da disperati pianti per la salute precaria della donna e per il suo stato civile di sposa, - l'altalena umorale è il motore dell'azione di tutta la seconda sezione. Pagine ansiose, non tutte con la stessa tenuta stilistica ma con indubbio pathos, sono realtà in cui il lettore non può fare a meno di rispecchiarsi. L'angoscia di quel notissimo m'ama-non-m'ama è complicata dalla preoccupazione crescente per la salute della donna, sottoposta a un delicatissimo intervento. E qui il protagonista si misura con le proprie emozioni sconvolte, che muovono tra varie traversie da un "non voglio che muoia!" a un "non voglio più che non muoia". E la modernità sconvolgente sta tutta nel finale che è meglio non svelare, ma che rispecchia appieno il nichilismo e la precarietà dei sentimenti, inserendo l'opera prima di Satta in un primo Novecento che disincanta tutti gli antichi incanti.
Gloria M. Ghioni
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