Intervista
a GenerAzione rivista
GenerAzione
rivista
è nata a Mantova nel 2008, nel corso del Festivaletteratura,
attraverso la volontà di alcuni giovani volontari del Blurandevù
(www.festivaletteratura.it).
I
fondatori di GenerAzione Rivista sono un gruppo di ragazzi
motivati da uno spirito comune ch'è diventato anche un manifesto:
Iuri Moscardi, Alessandra Trevisan, Anna Carrozzo, Flavia Russo,
Marcello Bardini, Filippo Bergamo.
Ma
«non è scrittura generazionale o giovanilista». Piuttosto è un
«portare avanti la bandiera della propria personale esperienza
culturale, una bandiera apolitica, sostenuta dall’asta della
letteratura fai-da-te». Quelli di GenerAzione Rivista sono «ragazzi
alla moda e demodés, moderni e all’antica, frequentatori dei
luoghi nevralgici delle nostre città (Milano, Pisa, Venezia,
Brescia, Ferrara, Lecce…)» (dal Manifesto di GenerAzione
rivista).
Qualcosa
di più, quindi, di un blog collettivo, e qualcosa di meno d'un
movimento generazionale.
Oggi
intervisterò GenerAzione rivista, come fosse lei
stessa un personaggio, un individuo. Ma non riceveremo una risposta
personale e individuale, di un rappresentate del gruppo. Piuttosto
plurale, ecumenica.
Benvenuta
su CriticaLetteraria, GenerAzione
rivista!
GenerAzione
Rivista: Ciao Riccardo, da Clara,
Iuri e il comitato di redazione della rivista. Grazie per lo spazio
che hai deciso di dedicarci.
Mi
piacerebbe che, per i nostri lettori, tu esprimessi in poche righe lo
spirito del progetto. Ma – come dire ? – fuori dal vostro
Manifesto, come se stessi parlando a un amico.
GenerAzione
Rivista:
La rivista è nata innanzitutto per dare espressione ad alcuni
pensieri e riflessioni interiori scaturiti durante il
Festivaletteratura di Mantova del 2008. Grazie a quella esperienza ci
siamo sentiti in grado di poter scrivere e parlare e criticare tutto
quello che viviamo attraverso il mezzo letterario, e abbiamo perciò
concretizzato la nostra proposta in una rivista. All’inizio era
solo discussione, spesso anche molto intellettuale e molto impegnata
e militante; ora invece abbiamo allargato i nostri orizzonti anche a
temi vicini ai nostri coetanei e al nostro presente, oltre che al
mondo culturale delle riviste online. In ogni caso, il fulcro del
nostro progetto è sempre lo stesso: darci una voce usando come
tramite la cultura (nel nostro caso, la parola scritta).
Sulla copertina
del numero IX di generazione rivista leggiamo
alcuni versi di Edmond Jabès: «Sovversivo è il foglio / cui la
parola crede di accamparsi / sovversiva la parola [...]».
Nell'introduzione
di Clara Ramazzotti a questo numero, poi, leggiamo un'accesa
invettiva contro «questa incontrollabile arroganza intellettuale»
di una poesia che «si fa noioso tecnicismo».
Scriveva Nicolás
Gómez Dávila: «Malgrado l'intrusione di fronzoli tecnici nelle
lettere, gli artifici estetici non sono strumenti di laboratorio, ma
trappole per dare la caccia agli angeli».
Come a dire che
la fucina del post-moderno non ha avuto solo un'importanza
“sperimentale”, ma anche persino “teologica”, e di certo
“etica” – nella misura in cui le sovversioni e le
destrutturazioni della forma hanno corrisposto a una mistificazione
dei valori.
Senso e forma.
Che ruolo può ancora avere oggi, secondo voi, la Parola poetica?
GenerAzione
Rivista:
La poesia è un aspetto enormemente creativo ed enormemente intricato
della letteratura, oltre che – per quanto riguarda il singolo poeta
– molto personale. Nella nostra rivista abbiamo parecchi autori che
se ne occupano e ne scrivono in quasi ogni numero, quindi crediamo
che, sebbene sia una forma di scrittura all’apparenza meno
immediata, la poesia sappia trattare determinati temi, accenti, moti
d’animo in un modo che la prosa non sa realizzare. Poi, non essendo
la rivista composta da professionisti, la scelta della prosa rispetto
alla poesia (e viceversa) è dettata anche dal talento e dalle
capacità personali di ognuno, laddove per alcuni la prosa è
qualcosa di troppo “allungato”, pieno di parole che alla poesia
non servono. Oltre all’approccio singolo, poi, conta molto anche il
tema che scegliamo: per esempio, il nostro ultimo numero – il
diciottesimo, uscito a dicembre – l’abbiamo dedicato al
cambiamento, e questo ha risvegliato la vena poetica di quasi tutti
gli autori del numero, anche di chi di solito non scrive poesie.
Insomma, nella poesia crediamo: pensiamo sia un modo efficace di
trasmettere un contenuto (esistenziale, narrativo, estetico) a
prescindere dalla forma (e infatti i nostri poeti scrivono nei modi
che gli risultano più congeniali, né troppo vincolanti né
tantomeno troppo alternativi). Peraltro, a dimostrazione di quanto
stiamo dicendo, è partita il 19 gennaio sul nostro sito una rubrica
proprio dedicata alla poesia.
Generazione
rivista è, oltre un cartaceo leggibile anche online
(www.generazionerivista.com), anche un gruppo affiatato che partecipa
a festival, presentazioni, documenta eventi. Crea ponti fra la realtà
culturale che ci circonda e il web.
Credo sia questo
il senso più profondo dei vostri periodici Reportage GenerAzionali.
Oltre che dare voce a giovani autori e giornalisti, anche
ri-dipingere «Un mondo a misura dei giovani».
Sono, i vostri
reportage, un ibrido: il focus di un racconto, con la scadenza di un
bollettino.
Cosa significa
per voi «Un mondo a misura dei giovani» ?
GenerAzione
Rivista:
Un mondo a misura di chi oggi ha venti/trent’anni è un mondo che
ci lascia respirare, ci lascia lo spazio che è di nostro diritto e
non ci relega tra gli ultimi, tra i qualunquisti, tra quelli che
hanno solo poche opzioni tra cui scegliere invece che tra tutta
un’ampia e vasta gamma di possibilità. Una domanda molto
interessante che ci era stata rivolta tempo fa chiedeva cosa per noi
significasse “essere giovani”, “giovanili”, dove finiva il
vecchio e iniziava il giovane. Ecco, in termini pratici chi è
giovane oggi ed è il pubblico adatto alla rivista ha tra i 20 e i 35
anni circa. In termini teorici (e anche utopici) chi può dire che
questa Italia è fatta per questa fascia d’età? Noi non lo
vediamo. Siamo pieni di dubbi, di paure, di fame e di ansia. Tutta
questa precarietà (intellettuale, prima che lavorativa) sta
diventando un abisso psicologico che ci impedisce di essere quello
che siamo: dei ragazzi con delle ambizioni. Solo che anche avere
delle ambizioni comuni e normali, senza nessuno snobismo, sembra
diventare sempre di più un’utopia.
Chiara Baldin nel
suo reportage UNA VALIGIA PIENA DI... racconta
la sua vita apolide, la sua «passione per il viaggio, per la
contaminazione di vite e culture».
Vorremo chiederle
la ragione di aver scelto il viaggio come topos.
E che significato può avere oggi parlare di viaggio
in un mondo globalizzato che sembra voler sacrificare la specificità
delle culture sull'altare di un pensiero totalitario. Cosa può voler
dire conciliare la libertà di spostamento di uomini e beni con il
rispetto dei localismi, l'apertura e il pluralismo dei sistemi
economici e politici con i particolarismi culturali.
Chiara
Baldin: «Viaggiare
insegna lo spaesamento, a sentirsi sempre stranieri nella vita, anche
a casa propria, ma essere stranieri fra stranieri è forse l’unico
modo di essere veramente fratelli. Per questo la meta del viaggio
sono gli uomini»
(Claudio
Magris, L’infinito
viaggiare).
Vorrei
lasciare a questa citazione la libertà di esprimersi e rispondere
alla domanda posta dal gentilissimo Riccardo Raimondo. Perché?
Perché credo che queste parole raccolgano la volontà di vedere lo
spostamento come incontro e condivisione: il viaggio permette alle
specificità culturali di contaminarsi e arricchirsi. Il vero viaggio
non è ostinazione e dominazione, nemmeno omologazione: chi si muove
si confronta, mette in discussione ciò che conosce e ciò che
ignora; chi si muove conosce persone, si sente straniero, ma a volte
si sente anche fratello. E chi si muove apre la sua mente e i suoi
occhi a dettagli, a prospettive, a colori e a sapori sempre
nuovi.
Per questi motivi e per un’indole pellegrina, è nata su GenerAzione Rivista una rubrica che intende sbriciolare e ricomporre la mia testimonianza di italiana migrante in Europa (ora a Lisbona). Il tentativo è anche quello di dare voce ad una volontà di partire per conoscere altre umane realtà e plasmarmi con esse; per scoprire le mie identità ed unirne di nuove; per mostrare prospettive di vita differenti e metterle a confronto; per valorizzare la diversità, affrontare le difficoltà e riflettere sulle culture come ricchezza; ma anche per trovare riconoscimento e gratificazione in ciò che professionalmente mi sta formando. Mancanza che, mio malgrado, spesso percepisco nel mio Paese, luogo di nascita e crescita.
Per questi motivi e per un’indole pellegrina, è nata su GenerAzione Rivista una rubrica che intende sbriciolare e ricomporre la mia testimonianza di italiana migrante in Europa (ora a Lisbona). Il tentativo è anche quello di dare voce ad una volontà di partire per conoscere altre umane realtà e plasmarmi con esse; per scoprire le mie identità ed unirne di nuove; per mostrare prospettive di vita differenti e metterle a confronto; per valorizzare la diversità, affrontare le difficoltà e riflettere sulle culture come ricchezza; ma anche per trovare riconoscimento e gratificazione in ciò che professionalmente mi sta formando. Mancanza che, mio malgrado, spesso percepisco nel mio Paese, luogo di nascita e crescita.
Vorrei, un giorno,
tornare e dare briciole di me per migliorare qualcosa, ma soprattutto
per spiegare quanto è importante trovare le analogie e le diversità
culturali, aprendosi alla mescolanza. E magari perché no: raccontare
che anche a Lisbona si mangia il salame di cioccolato!
Alessandro
Belotti, invece, su un'onda simile, nel suo reportage AL
DI LA’ DEL CHECK POINT, parla
della delicata questione mediorientale, con una particolare
attenzione ai rapporti fra Palestina e Israele.
In
una sua intervista, interroga Lamis K. Andonis, giornalista
palestinese di Al-Jaseera, riguardo la convivenza fra cristiani e
musulmani in Terra Santa. Ecco uno stralcio della risposta di
Andonis: «È molto importante per entrambi mantenere questo tipo di
accordo, perché fa parte dell’orgoglio palestinese poter affermare
che la cristianità è iniziata proprio in Palestina».
Vorremo
chiedere questo ad Alessandro Belotti: non credi che ci siano delle
ragioni più profonde di questa convivenza, ragioni persino
al di qua del problema
dell'integrazione e dei bisogni della politica?
Il
Cristianesimo e L'Islam sono gli ultimi baluardi di una cultura del
Sacro nel Mediterraneo. Non ti pare che i pregiudizi nei confronti di
queste religioni siano avallati – e direi quasi sponsorizzati –
da un sistema, prima economico, poi culturale, che ha tutto
l'interesse a diffondere una “cultura dell'ateismo”? Insomma, un
popolo senza Dio è un popolo che si può comprare.
foto di Alessandro Belotti |
Alessandro
Belotti: La
domanda sembra già contenere la risposta, ma cercherò di rispondere
ugualmente secondo quanto ho avuto modo di conoscere direttamente
durante i mesi che ho trascorso in Palestina. La religione, qualunque
essa sia (cristiana, musulmana, ebraica), coinvolge gli abitanti di
Israele e dei Territori Palestinesi a 360 gradi. Questo significa che
la dimensione religiosa è vissuta in maniera molto profonda e fa
parte dell'identità di ogni singolo e di ogni famiglia, molto più
di quanto non avvenga in Occidente. All'interno del mondo arabo
palestinese le due grandi religioni praticate sono, da centinaia di
anni, quella cristiana e quella musulmana: la convivenza, ancorché
non priva di problemi, la si respira nei saluti calorosi che le
persone di religione diversa si scambiano quando si incrociano nel
suk o per strada, nel rispetto con cui vengono celebrate le
rispettive funzioni religiose (matrimoni compresi), nel fatto che
nelle scuole cattoliche in Palestina metà dei bambini sono musulmani
e imparano a convivere sin da bambini, nel rispetto mostrato a un
sacerdote quando si appresta a cenare in un ristorante musulmano,
dove non si servono alcolici ma in cambio si può mangiare un
delizioso e gigantesco piatto a base di carne d'agnello. In relazione
alla cultura dell'ateismo, ci sono molti intellettuali palestinesi
che hanno abbracciato in passato il credo marxista senza rinnegare le
proprie origini e tradizioni: sono stati proprio loro a gettare i
primi semi della rinascita palestinese da un punto di vista nazionale
e irredentistico. Il più grande intellettuale di origine
palestinese, Edward Said, inoltre, criticò fortemente il concetto di
"Orientalismo", che suggerisce una nuova metodologia di
studio sul colonialismo: un modo di pensare il cosiddetto Oriente da
parte degli studiosi occidentali costituito da un insieme di
concezioni false e stereotipate. Concezioni dovute ad una visione del
mondo di tipo eurocentrico, che ha come naturali conseguenze la
creazione di opposizioni radicali fra ciò che è europeo e ciò che
non lo è, al fine di creare un concetto di alterità e di ossessiva
diversità nei confronti di tutto ciò che non è "occidentale".
La diversità e la bellezza di quella terra sta dunque non solo
nell'essere, storicamente ma talvolta ideologicamente, “la culla
delle tre religioni monoteistiche”, ma nella convivenza, nella
quotidianità di persone di religione diversa che condividono la
nazionalità araba e quella palestinese.
Grazie
di essere stati con noi. I miei migliori auguri da parte mia e di
tutta la redazione di Criticaletteraria.
GenerAzione
Rivista: Grazie
a voi e a Riccardo Raimondo per averci dato quest’opportunità.