Ricordato, ogni volta che se ne parla, quasi sempre più per la sua sfortuna editoriale che per il valore delle sue opere, Guido Morselli (Bologna, 1912 – Varese, 1973) è, nella storia della letteratura novecentesca, il classico outsider. Rifiutato dalle menti di riferimento del periodo (su tutti Calvino e Sereni), non rinunciò però a scrivere, accumulando tanto materiale (un diario, romanzi, saggi, articoli, racconti) che dal 1974 in poi la Adelphi ha proposto nel corso degli anni.
Mal prese, come è normale che sia, il muro contro cui continuamente sbatteva, tanto che con forzate semplificazioni di stampo più giornalistico che storico-biografico si diffonde non raramente la convinzione che sia per questo, che si sia suicidato, nella notte tra il 31 luglio e il 1° agosto 1973; è importante dire che proprio il 31 luglio trova nella cassetta della posta due manoscritti – rifiutati – del suo Dissipatio H. G., per cui sembra di avere in mano la pistola fumante (non solo metaforica). Ma è anche più importante ricordare come il tema del suicidio Morselli lo avesse già affrontato in un articolo del 7 settembre 1949 sul TEMPO di Milano (“Il suicidio”), quando ancora non era a regime la sua odissea per la ricerca di una pubblicazione: come a dire, i rifiuti editoriali non furono che una concausa di un gesto che di certo, ci sentiamo di dire, non fu improvvisato. Dal Diario:
Tecnicamente Morselli non era comunque inedito, in quanto collaborava con alcuni giornali, ma soprattutto perché in vita due libri riuscì a licenziarli: un saggio su Proust, Proust o del sentimento, uscito nel 1943 per Garzanti (a spese però del padre), e un saggio filosofico in forma di dialoghi, Realismo e fantasia, nel 1947 dato alle stampe dall’editore Fratelli Bocca (anche in questo caso presumibilmente con contributo economico). Sul fallimento influì fortemente anche il suo carattere: solitario (viveva grazie a un vitalizio paterno in una villa in campagna nei pressi di Varese, si definiva “fobantropo”), riservato, fuori dai cenacoli letterari, di certo non fomentò una minima socialità culturale che era e resta ancora oggi uno dei fattori più importanti per giungere alla pubblicazione del proprio libro. Si affidò così alle spedizioni dei dattiloscritti e allo scambio di vedute con chi lo esaminava: molto interessante, per esempio, è la risposta (5 ottobre 1965, di cui riportiamo un passo) che Calvino diede a Morselli per motivare il rifiuto del suo romanzo Il Comunista:
«[…] il retroterra anarchico-emiliano, l’autodidattismo marxista, tutta la figura di Ferranini, c’è, persuade; la discussione ideologica che percorre tutto il libro, resta una discussione in margine ai testi, sovrapposta al romanzo, lì è Lei che parla, chiosando libri; la vita vissuta c’entra fino a un certo punto; la biografia americana di Ferranini, anch’essa minuziosissima, e tutto sommato persuasiva, sa però di documentazione indiretta, resta fredda, come se Lei avesse utilizzato le memorie di qualcuno; quest’impressione è accentuata dall’italiano che Lei usa quando parla dell’America, tutto voci prese di peso dall’inglese (pneumonia per polmonite; libreria pubblica per biblioteca; udienza per pubblico). Niente di male; sarebbe sgradevole se facesse l’opposto, se italianizzasse troppo; ma direi che ci vorrebbe più consapevolezza dell’operazione linguistica che sta facendo; dove ogni accento di verità si perde è quando ci si trova all’interno del partito comunista; lo lasci dire a me che quel mondo lo conosco, credo proprio di poter dire, a tutti i livelli. Né le parole, né gli atteggiamenti, né le posizioni psicologiche sono vere. […] Spero che Lei non s’arrabbi per il mio giudizio. Si scrive per questo e solo per questo: non per piacere, o stupire, o “aver successo”.»
Dalla replica di Morselli, è importante estrapolare la seguente frase:
«Finirei per concludere così: che nel “Comunista” è veduto un ambiente e soprattutto un “tempo” (il ’58: già lontano da noi) di un organismo che – in Italia! – è soggetto a frammentazioni (anche geografiche) e a evoluzioni frequenti e non di superficie. Non pretendo di dare un giudizio storicizzante, e nemmeno, nemmeno, un ritratto esauriente.»
Lo scambio è paradigmatico, per farci capire per quale motivo Morselli possa essere definito un “alieno” non solo per il suo approccio caratteriale alla mondanità culturale, ma anche e soprattutto per le particolarità della sua letteratura: niente di inquadrabile nelle caselle del tempo, un trasformismo sia stilistico che concettuale che lo ostacolò, più che agevolarlo; e anche il dono disgraziato di uno sguardo critico che precorreva i tempi: ne Il Comunista, ciò che salta alla vista è quel personalismo che avrebbe involgarito la politica e che sarebbe diventato quel leaderismo odierno che ha in Berlusconi il suo massimo rappresentante: ossia non più il partito con le sue idee, al centro, ma il leader. In quel romanzo Morselli metteva così in luce ciò che sarebbe esploso negli anni e decenni successivi: l’egoismo dell’uomo politico che mette i propri, di interessi, e le proprie gelosie davanti a quello collettivo, di interesse. Parlare con il senno di poi è certamente facile, ma possiamo fare una forzatura, e dire che Calvino in questo libro cercava il Partito Comunista come era all’epoca, mentre Morselli ne dipinse una possibile evoluzione che purtroppo sarebbe diventata reale: e qui fu forse l’equivoco del rifiuto.
Per trasformismo morselliano, si intende la sua capacità di gettarsi in diversi generi letterari, sempre con risultati di eccezionale qualità: dallo splendido e raffinato Un dramma borghese, romanzo violentemente psicologico che analizza attraverso dinamiche quasi incestuose il rapporto padre-figlia, a quello che possiamo considerare come un epitaffio, Dissipatio H. G., ultimo suo lavoro in cui un uomo, dopo aver fallito il suicidio, si ritrova in un mondo in cui sono scomparsi gli altri umani, passando per anche ucronie, distopie, divertissement (Contro-passato prossimo, Roma senza papa, Divertimento 1889, per dirne alcuni…), Morselli dimostrò una vorace curiosità a tutto tondo nei confronti di diverse sfumature dell’esistenza umana, senza fossilizzarsi né ideologicamente né politicamente, né soprattutto esteticamente. Questo fu a mio parere il suo grande pregio, che paradossalmente ne causò però la condanna editoriale, in quanto autore troppo slegato da qualsiasi cosa, e non definibile secondo gli occhiali a volte eccessivamente quadrati del tempo: prova ne fu che autori immensamente meno dotati di lui, come purezza di talento, ma più canonici e decifrabili (“facili”), ebbero e hanno tutt’oggi più successo e considerazione: penso per esempio a Vittorini, o a Cassola.
E questo talento selvatico trova sfogo in una scrittura che vien da definire sontuosa, talmente densa di uno stilismo – che si intende, con un’altra forzatura, in accezione positiva, ossia non sterile ma funzionale – avvolgente da costringere a bloccare la lettura per sfogare una delle più elementari e spontanee reazioni: la meraviglia.
Da Un dramma borghese:
«[…] Mi figuro di buttarmi davanti a Teresa. Le stringo con le due braccia le gambe, gliele sollevo, schiaccio il viso contro quei ginocchi. L’immagine è tanto precisa da destarmi l’effetto riflesso, consueto in me nell’atto reale: il polso che mi si accelera, tumultua; le nari che si dilatano. Emerge finalmente quello che non avvertivo due ore prima, dopo quella carezza affrettata, l’insoddisfazione fisiologica. Il bisogno, il semplice bisogno senza frange sentimentali né velo di ironia, e circostanza altrettanto strana, senza disturbo di evocazioni e confronti importuni, il buon bisogno nella sua rara spontaneità. E non ammette inibizioni. Quei ginocchi, l’orlo di quella sottana. Il senso che a me sembra amoroso sopra ogni altro, che m’introduce e mi accompagna l’estro e è un istinto a parte con la sua lucida discriminazione, le sue esigenze, l’olfatto, mi immerge in una vertigine tesa. Fiuto l’aria a occhi chiusi, dal fondo della mia poltrona.»
Piero Fadda