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Il Salotto - Il verso (privato) di Mirko Risso

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 A Genova, narra la leggenda, la poesia nasce dall'aria, dal mare e dalla focaccia. Tralasciando l'ultima nota gastronomica, l'aria che si respira nei carruggi - una babele di lingue e di popoli - e quel mare che, con la montagna alle sue spalle, chiude la città in un fazzoletto di terra, nutre da sempre la poesia genovese e ligure. Esempi sono Montale, Sanguineti, Sbarbaro, De Andrè e Caproni, livornese di nascita, ma genovese d'adozione.
I versi di Mirko Risso, all'esordio con il bel libro, (Privato) (Arduino Sacco Editore, 2010), nascono proprio dall'aria che si respira a Genova e da quel mare in cui la città sembra cadere. Ma Risso non si ferma alla tradizione; questa semmai è un punto di partenza per un percorso poetico personale, percorso il cui primo approdo mette in luce la ricorrenza di alcune figure, la costanza di determinate tematiche e un'attenzione alla forma che denota già una certa maturità. Nella prefazione ai versi viene esaltata un'influenza montaliana -indiscutibile-, ma a mio personalissimo avviso Risso è più vicino a Caproni e, uscendo dalla Liguria, a Pasolini, con quel verso spesso spezzato dal segno di punteggiatura e il ricorso quasi ossessivo all'enjambement.
Non mi dilungo oltre e lascio la parola al poeta.


Quando mi sarò deciso
d'andarci, in paradiso
ci andrò con l'ascensore
di Castelletto

(Giorgio Caproni)

Partiamo dal titolo, (Privato). Le parentesi sono l'elemento fondamentale, come a voler sottolineare il rapporto intimo che la poesia stabilisce con il poeta, ma anche con il lettore. Vedo giusto, oppure mi sbaglio?
Il titolo è uno degli elementi la cui gestazione è stata più travagliata, fino all'ultimo non era ben definito nella mia mente. Sono passato da titoli complessi via via a sempre più semplici, fino a (Privato), che rispecchia, almeno ai miei occhi, il contenuto dei singoli testi che riguardano situazioni personali, e quindi private, ma anche, come ben dici tu, il rapporto intimo che sia l'autore che il lettore hanno - o dovrebbero avere - con il testo poetico, qualsiasi testo poetico. I segni delle parentesi stanno lì a sottolineare tutto questo. Tra l'altro molti di coloro che hanno letto il libro non se ne sono accorti, cioè hanno pensato che le parentesi fossero un semplice segno grafico della copertina, mentre invece sono stati una mia scelta. Senza le parentesi il significato del titolo si attenua, o potrebbe addirittura cambiare.

Una prima lirica di cui vorrei parlare è la seguente:
La neve piano sospira, tinge,
straniera, di grazia immobile
crogiuoli di malsicure valli sul mare.
Fendono le brume i tuoi cigli,
di questo candore d'istante
non godono, lontani; il bianco
manto si scolora, riaffiora il bruno
sudicio dei carruggi, nido al brulicare
di blatte in un fondo di vita.
Nei tuoi versi affiora il contrasto tra il candore della neve e la condizione in cui versano molti dei vicoli. Tuttavia il loro sapore decadente è affascinante, mentre da questi versi ne esce un po' con le gambe rotte. Si tratta di una protesta civile contro il degrado in cui versa la città vecchia, e quindi una dichiarazione d'amore? Qual è il tuo rapporto, da poeta e da uomo, con una città che ha dato natali ed ispirazione ai grandi del XX secolo (e penso non solo a Montale, ma soprattutto a Sanguineti e De Andrè)?
Io amo moltissimo Genova, città dove sono nato e dove vivo, nonostante abbia tutta una serie di problemi, anche gravi, che le istituzioni non riescono o non vogliono risolvere. E' una città che ha poco da offrire ai giovani, soprattutto dal punto di vista del lavoro. Penso però che sia, a differenza delle grandi città, il giusto compromesso tra metropoli e provincia, una città a misura d'uomo, dove la durezza si accompagna alla bellezza del luogo, e dove ci si possa spendere senza tradire una certa idea del mondo, tipicamente genovese. Questo almeno nella mia personale mitografia di Genova. Citando Giorgio Caproni: 
Qui forse potrei vivere,
potrei forse anche scrivere:
potrei perfino dire:
qui è gentile morire.
Senza dubbio c'è impressa nei versi una dichiarazione di affetto, di fascino per la Genova vecchia, in quell'occasione innevata. Manca però l'intenzione di critica sociale o protesta civile. Si tratta piuttosto di una interiorizzazione della città, quindi il testo va inteso come una specie di correlativo oggettivo. Le forme di vita più umili, le blatte, certi individui ai margini della società civile che si possono incontrare nei vicoli genovesi, non sono necessariamente qualcosa di negativo, anzi De Andrè ci ha costruito tutta una poetica, e così alcuni nostri moti interiori.

Una delle liriche che mi ha più colpito recita:
La foglia è muta,
il proprio dolore non fiata,
non brucia nell'ansia
quando il cielo sgronda
buia furia e pioggia: sbattuta
da ogni lagrima si scuote,
la foglia, serena torna
alla verde pace sospesa
tra vuoto e ramo attende
il sole che verrà
La foglia come metafora della caducità della vita, della fragilità se vuoi dell'esistenza umana a me ricorda l'Ungaretti di 
Si sta come
d'autunno
sugli alberi
le foglie
Nei tuoi versi però la foglia mi pare combatta per rimanere attaccata all'albero e quindi alla vita...
Devo dire, benchè io ami molto Ungaretti, che non ho mai subito o ricevuto un influsso diretto dalla sua poesia, almeno non consapevolmente. Questa foglia è parte integrante e fondamentale dell'albero, è lo strumento col quale un organismo complesso si nutre di luce. Il testo è incentrato su questa cosa fragile e appesa al ramo per tramite di un niente, che tuttavia resiste alla violenza degli elementi. E questa foglia siamo noi, dunque io leggo la poesia come un'esortazione alla tenacia, e una descrizione della condizone dell'uomo, braccato da qualcosa che lo sovrasta, ma aggrappato alla sua vita, a un senso della vita nonostante tutto, che può essere molte cose, ognuno dovrebbe saperlo per sé.

Ci sono alcune figure che ritornano nel testo, a dimostrazione di un'attenzione anche in fase di progettazione globale del libro. Una di queste è quella del «cerchio chiuso», quasi a riprendere la parentesi del titolo e cercare di dare una dimensione intima delle tematiche che affronti, tra cui l'amore 
Qui
la dolcezza
è carta moschicida,
l'amore
questa musa di pietra
che mi si sgretola
tra le mani
e la condizione di incertezza della vita dell'uomo.
In realtà il libro è nato da se, come si suol dire. I singoli testi erano già scritti, alcuni anche da molto tempo, e indipendenti l'uno dall'altro. Il lavoro è stato quello di fare una cernita e scartare il superfluo e poi mettere quel poco che era rimasto in ordine - non cronologico. Intendo dire che non c'è stata una volontà precisa di costruire un libro che ha influenzato la composizione dei singoli testi, il libro è venuto dopo. Naturalmente ho eliminato tutti i testi che avrebbero portato la raccolta verso altre strade, ma la scelta è stata anche dettata da un certo rigore stilistico.
La figura del cerchio mi affascina molto, è un abito in cui mi identifico spesso, nel bene e nel male. Sta per ripetizione infinita, magari di situazioni reali o mentali da cui non si riesce a uscire, e quindi sta per un qualcosa di chiuso, una cella metafisica. Il cerchio è rassicurante - anche per questo è una trappola -, luogo dove ci si riconosce, è lo specchio dove ogni mattina ci si guarda e si viene osservati da se stessi. Può essere il ventre materno o il bicchiere che intrappola la mosca. Per quanto riguarda gli altri due temi, sono un po' come due mostri sacri che non si possono non affrontare nella vita: l'amore e la morte. Se da un lato considero l'amore come parte integrante dell'esistenza, e quindi non necessariamente di segno positivo, dall'altro credo la caducità della condizione umana essere ciò le da valore: siamo qui per un determinato tempo, cerchiamo di fare del nostro meglio.

La tua poesia non trova rifugio nell'endecasillabo, ma si nutre piuttosto di un ricorso quasi ossessivo all'enjambement. La rima non è così frequente, esattamente come la strofa, nei pochi casi in cui se ne ha più d'una, non è regolare. Il ricorso al verso libero, ma anche a una figura forte come l'enjambement è sintomo di rottura degli schemi, ma comunque attenzione alla forma? Mi pare che in questo modo il verso riesca a seguire i movimenti della tua lingua, ma allo stesso tempo non la imprigioni in un metro che forse non le apparterrebbe.
La forma in poesia è fondamentale, così come lo è nell'arte in genere. La forma o lo stile sono scelte precise che vanno tutt'uno con i contenuti. Nella mia modesta esperienza di scrittore, parto da un verso o un concetto che mi suona, e poi costruisco tutt'attorno per aggiunte il resto del testo, seguendo il ritmo che sento in ciò che scrivo. Al mio orecchio, nonostante usi un verso libero, i testi devono "suonare", e l'enjambement, assieme a una frantumazione interna al verso, all'uso della rima interna, creano questo movimento. Un metro troppo rigido non permetterebbe di esprimermi, ma non è possibile scrivere poesia senza attenzione al suo lato formale.

Infine, l'infanzia è un tema che affronti con estrema cautela, quasi a volerne preservare la purezza. E il confronto è con la vita del poeta ormai adulto. Ne Il fanciullo felice chiudi così: 
Così è la mia vita schiusa
nel giro di una piazza,
tutta franti cerchi, giochi stanchi
e strozzati canti
per difetto per eccesso di -
La lirica si chiude in un "finale aperto" sulla vita: mentre l'infanzia è un periodo chiuso, ben definibile e felice, la vita da adulto sembra non avere certezza. Siamo perciò condannati ad un lotta eterna? Un po' come la foglia di poco fa...
L'infanzia è stato sen'altro per me un periodo felice, chiuso in se stesso, ma non irraggiungibile. Mi piacciono molto i bambini, con cui tra l'altro lavoro, e credo che non sia impossibile mantenere un certo grado di "infanzia" dentro di sé, e farlo vivere anche da adulti. La vita da adulto non è per forza infelice, ma è geneticamente assurda, e l'nfelicità può derivare dalla coscienza dell'assurdo e dall'impossibilità di dare una risposta a questa condizione. Contro l'assurdo dell'esistenza, la sua incertezza (per come la vedo io) l'uomo può opporre la resistenza della foglia sul ramo, che è la tenacia di ogni giorno, Sisifo condannato dagli dei a portare un macigno sulla cima per l'eternità. Albert Camus così chiude un suo libro: 
Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice.


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Intervista a cura di Alessio Piras