di Joseph Roth, 1932
Milano, Adelphi, 1994
pp. 424
L’imperatore era ormai vecchio, il più vecchio imperatore del mondo. La morte gli ronzava intorno, ronzava e falciava, falciava e ronzava. Il campo era già liscio, e lui, simile a un gambo d’argento di cui la morte si era scordata, rimaneva lì, attendeva.
Un mondo antico, immobile, cristallizzato, inesorabilmente destinato al totale disfacimento. È il mondo narrato da Joseph Roth ne La marcia di Radetzky, pagina fondamentale sulla “finis Austriae”, la dissoluzione dell’ultimo impero ottocentesco.
Secondo Pierre Braudel, la Storia è fatta dalla compenetrazione di singoli avvenimenti (Storia evenemenziale) e di fatti storici di più ampio respiro (Storia profonda); ognuno dei due aspetti è irrinunciabile e funzionale alla comprensione del quadro d'insieme. La lettura di questo romanzo dà un esempio di come un fatto storico isolato – ancorché inventato dall'autore – integrato al contesto generale, dia possibilità di accesso a un universo parallelo e sconosciuto, descritto in maniera impeccabile.
Durante la battaglia di Solferino,il sottotenente Trotta salva la vita al giovane imperatore Francesco Giuseppe e viene pertanto decorato e nominato barone. Questo fatto rappresenta un punto di svolta nella vita del giovane, originario di un paesino dell’est e discendente da una famiglia di contadini. Il romanzo segue le vicende di tre generazioni della famiglia Trotta, che in un modo o nell’altro vive nell’ombra dell’”Eroe di Solferino”. Il figlio Franz accede alla carriera governativa sino all’ambìto grado di Sottoprefetto dell’Impero, mentre il nipote Carl Joseph sarà avviato alla carriera militare. A loro è dato il compito di conservare l’onore della famiglia e di perpetuare l’esempio di colui che si era dimostrato così eroico da meritare di essere citato nei libri di storia di tutte le scuole dell’Impero, giacché la Storia e la biografia dell’Imperatore sono la stessa cosa.
Sarà il giovane Carl Joseph il testimone diretto della progressiva e inarrestabile rovina di quel mondo, che giorno per giorno si consuma fino a raggiungere il suo interno, l’esercito imperiale, disperso nelle innumerevoli Fortezze Bastiani agli estremi confini di un regno costituito da un mosaico di popoli, lingue e religioni diverse che il potere centrale tenta disperatamente di controllare ma che è destinato alla frammentazione sotto i colpi delle inevitabili e legittime istanze politiche, sociali ed economiche di un mondo completamente diverso da quello del 1859. L’universo militare è un insieme di piccoli uomini incompiuti e tristi, che cercano nell’alcol e nel gioco d’azzardo una fantomatica rivalsa per le disillusioni di quella vita che appariva gloriosa ed esaltante, fatta di sciabole lucenti, uniformi variopinte e azioni eroiche. Ben presto il giovane sottotenente si rende conto che tutto ciò è come sepolto sotto uno strato di sabbia, che non esistono relazioni umane sincere, che tutto è privo di senso e destinato a corrompersi irrimediabilmente e a morire, come le donne che tenta di amare o l’unico vero amico che come e prima di lui si rende conto dell’enorme inganno di cui sono vittime.
Lo stesso mondo agli occhi di suo padre appare invece certo e indiscutibile, fatto di riti quotidiani immutabili, di incomunicabilità e distacco in ossequio alle norme sociali. Il sottoprefetto Franz von Trotta è un magnifico esemplare di funzionario imperiale, rigido e impassibile ma soprattutto fermamente convinto di essere il rappresentante del migliore dei mondi possibili, come un novello Pangloss che mai si azzarderebbe a mettere in discussione ciò che ritiene inalterabile realtà, che come tale va recepita dogmaticamente. Ecco quindi le piccole manie quotidiane, i comportamenti ripetuti in modo sempre identico, la lettura della posta a un orario preciso, le passeggiate mattutine, i dialoghi sempre uguali con il direttore della fanfara di presidio che ogni domenica esegue la “Marcia di Radetzky”, l’inno non ufficiale dell’Impero, non più marcia trionfale ma simbolo ormai logoro e stantio di questo mondo in rovina su cui regna l’ormai vecchio Francesco Giuseppe, imperatore venerato come un semidio, che dagli onnipresenti ritratti veglia sui sudditi con sguardo paterno e rassicurante, ignaro e sordo all’appressarsi della fine; il suo ritratto e quello dell’Eroe di Solferino campeggiano nella signorile ma sobria casa del sottoprefetto, anch’egli ormai vecchio e disorientato dagli inattesi segnali di cambiamento della realtà circostante:
Gli sembrava che all’improvviso il mondo non fosse popolato che di cèchi, che erano cocciuti, rivoluzionari, stupidi e coniatori del termine “nazione”. Potevano esserci anche numerosi popoli, ma numerose nazioni no!
Il destino lega le sorti della famiglia Trotta, di Francesco Giuseppe e dell’impero; tutto finisce tragicamente all’inizio della Prima Guerra Mondiale, quel macello di proporzioni spaventose che Hobsbawm indica quale inizio del "secolo breve", da cui l’Austria-Ungheria, assurdo simulacro del passato, uscirà annientata. Parallelamente terminano le esistenze dei protagonisti, in una Vienna tristissima, piovosa e autunnale.
Un grandissimo Joseph Roth, un romanzo avvincente e affascinante, che restituisce in modo assai efficace l’atmosfera irreale e agonica di fine impero, con i suoi riti sterili e le sue incongruenze, evocando immagini ingiallite come di vecchie fotografie. La narrazione scorre fluida, ricca di particolari e con frequenti incursioni nelle menti dei diversi personaggi, a rivelarne i travagli e la fatica nel condurre esistenze minate da convenzioni e ipocrisia.
Nessun rancore, nessuna acredine tuttavia traspaiono dal testo, anzi. Roth descrive fatti e circostanze con realismo e con compassione, conscio del fatto che il crollo dell’Impero non rappresentò solo un mero accadimento storico ma un vero e proprio cataclisma sociale e culturale, dopo di cui nulla fu più come prima.
La fine del mondo, appunto.
Stefano Crivelli