di Mario Vargas Llosa
Traduzione di Glauco Felici
Einaudi, Torino 2011
pp. 422
«Il tuo Rapporto sul Congo mostrava il contrario, piuttosto. Che siamo stati noi europei a portare là la peggiore barbarie»
Irlanda, Congo e Perú. Tre paesi distanti migliaia di chilometri e in tre continenti diversi le cui storie nazionali non si sono mai incrociate, ma che hanno qualcosa in comune che li rende, in qualche modo, simili. Questo qualcosa è il tema de Il sogno del celta, ultima fatica del Nobel 2010 per la letteratura Mario Vargas Llosa, ed è semplificabile nella relazione che intercorre tra civiltà e barbarie, vera ossessione dello scrittore peruviano e di tutti coloro che provengono da Paesi che, nel corso della loro storia, sono stati colonie europee.
Roger Casement è un diplomatico britannico di origini irlandesi che parte giovanissimo per il Congo dove vivrà per vent'anni denunciando i soprusi del regime coloniale belga. Verrà trasferito prima in Brasile e poi in Perú, dove stilerà un rapporto in cui denuncia lo sfruttamento dei nativi amazzonici da parte della Peruvian Amazon Company, azienda inglese che opera nell'Amazzonia peruviana nell'estrazione del caucciù. Ed è questo oro nero a stimolare l'avidità e la cupidigia del civile colonizzatore europeo; con il pretesto di portare la civiltà laddove regna la barbarie si innesca un regime di sfruttamento economico che porta alla morte migliaia di indigeni. Che sia uno Stato o una multinazionale il risultato non cambia. Viaggiando tra Congo e Perú, Casement si rende conto che la differenza tra questi Paesi e la sua Irlanda non è poi molta: anch'essa vive in un regime semicoloniale da parte dell'Inghilterra. Decide, quindi, di unirsi ai nazionalisti irlandesi e sposa la causa dell'indipendenza, motivo per cui verrà condannato a morte per alto tradimento. Questa la storia di Roger Casement, vero e proprio eroe tragico, personaggio realmente esistito di cui Vargas Llosa dà una versione perfettamente a metà strada tra realtà e finzione.
Ma il romanzo va ben oltre e lascia nel lettore un senso di smarrimento tipico dei migliori lavori di Vargas Llosa. Primo fra tutti La casa verde (1965), romanzo che da solo avrebbe meritato al suo autore il Nobel. La tematica è la stessa, ma l'azione si svolge per intero in Perú. Sulle orme di Cuore di tenebra, lo scrittore peruviano sembra chiedersi il perché del fallimento costante della missione/pretesa civilizzatrice europea nel mondo. Questo interrogativo ritorna ne Il sogno del celta, come ritorna Conrad, personalmente conosciuto da Casement, e che diventa personaggio del romanzo attraverso i ricordi del protagonista. Una risposta precisa al suo interrogativo Vargas Llosa non la fornisce, ma è consapevole del fatto che il rapporto tra civiltà e barbarie costituisce un'ottima misura per giudicare l'essere umano, per capirne la natura più profonda. Se Conrad, infatti, vede un imbarbarimento dell'uomo civile a contatto con la barbarie, Casement sembra sposare la tesi secondo cui sono i referenti dei due termini ad essere invertiti: gli europei sono i barbari, mentre i nativi con il loro intimo rapporto di equilibrio con la natura sono i civili. E la prova starebbe tutta nelle parole di Alice Stopford Green, amica del protagonista, durante uno dei suoi colloqui con Casement:
«[...] tu sei stato vent'anni in Africa senza diventare selvaggio. Anzi, sei ritornato più civilizzato di quanto fossi quando sei partito da qui credendo nelle virtù del colonialismo e dell'Impero» (65).
La vita del protagonista è un percorso che conduce alla sua disillusione, a quella di Vargas Llosa e, in ultimo, a quella del lettore.
Dal punto di vista stilistico il romanzo non è certamente il capolavoro dello scrittore peruviano che ha perso ormai da tempo lo smalto dei suoi primi tre lavori (oltre a La casa verde, La città e i cani del 1962 e Conversazione nella Catedral del 1969): la polifonia di linguaggio e quel legame così perfetto tra forma e contenuto si sono persi col tempo, lasciando spazio a una maggiore maturità che si percepisce nel ritmo quasi anglosassone della narrazione. Il sogno del celta sembra accusare il passo biografico con cui procede la scrittura e la realtà prevale, in qualche modo, sulla finzione. Ciononostante, Vargas Llosa riesce a creare una relazione tra due sistemi di sfruttamento diversi (Congo e Perú), ma con lo stesso fine e un sistema di dominio (quello inglese sull'Irlanda) che doveva essere legittimato da una sorta di ius loci, mettendo a nudo la natura contraddittoria dell'uomo. Solo per questo motivo Il sogno del celta coglie nel segno di quella che è la missione principale dell'arte narrativa di Vargas Llosa: difendere la libertà e disvelare gli inganni del potere.
Dal punto di vista stilistico il romanzo non è certamente il capolavoro dello scrittore peruviano che ha perso ormai da tempo lo smalto dei suoi primi tre lavori (oltre a La casa verde, La città e i cani del 1962 e Conversazione nella Catedral del 1969): la polifonia di linguaggio e quel legame così perfetto tra forma e contenuto si sono persi col tempo, lasciando spazio a una maggiore maturità che si percepisce nel ritmo quasi anglosassone della narrazione. Il sogno del celta sembra accusare il passo biografico con cui procede la scrittura e la realtà prevale, in qualche modo, sulla finzione. Ciononostante, Vargas Llosa riesce a creare una relazione tra due sistemi di sfruttamento diversi (Congo e Perú), ma con lo stesso fine e un sistema di dominio (quello inglese sull'Irlanda) che doveva essere legittimato da una sorta di ius loci, mettendo a nudo la natura contraddittoria dell'uomo. Solo per questo motivo Il sogno del celta coglie nel segno di quella che è la missione principale dell'arte narrativa di Vargas Llosa: difendere la libertà e disvelare gli inganni del potere.
Alessio Piras