5. Verso la meta fiaba
Che esista una quest di Tolkien alla ricerca della forma narrativa che meglio si confaccia alle esigenze della sua ispirazione, è comprovato dal fatto che The Lord of the Rings si presenta sempre come metaromanzo, work in progress, fiaba che parla di se stessa. La riflessione metanarrativa si snoda per tutto il libro.
Durante la sosta a Rivendell, Bilbo e Frodo si ritrovano e parlano del libro che Bilbo sta scrivendo e che verrà terminato da Frodo e da Sam. Esso concerne la Guerra dell’Anello e non è altro che “Il libro Rosso dei Confini Occidentali”, quello stesso libro che, “riveduto e corretto da Tolkien”, i lettori si trovano fra le mani sotto forma di “The Lord of the Rings. Il dibattito fra Bilbo e Frodo è una riflessione di Tolkien sulla propria opera. Lo scrittore parla con il suo personaggio:
“What about helping me with my book, and making a start on the next?” suggerisce Bilbo/Tolkien“have you thought of an ending?”“Yes, several, and all are dark and unpleasant;” said Frodo. “Books ought to have good endings. How would this do: and they all settled down and lived together happily ever after?”, “it will do well, if it ever comes to that” said Frodo.”
Tolkien sta considerando insieme ai personaggi le possibilità del proprio racconto. Che farne? Una fiaba a lieto fine, di facile lettura come The Hobbit? Uno specchio della vita vera in cui gli happy endings sono pochi?
Fino a Rivendell il romanzo segue le orme di The Hobbit ed è abbastanza leggero. I primi capitoli, in modo particolare, scritti subito dopo The Hobbit, come suo seguito immediato, hanno il tono infantile della prima materia hobbit.
“A long Expected Party” è molto simile a “An Unexpected Party”. Gradualmente, però, il tono s’incupisce, gli infantilismi degli hobbits diminuiscono, la minaccia prende la forma dell’incubo.
In sostanza, il primo volume di The Lord of the Rings è molto diverso dagli altri due perché è ancora attratto nell’orbita di The Hobbit. Durante il primo libro Frodo cresce, dall’hobbit passivo, che deve essere strappato al pericolo dal servo Sam e liberato dalle grinfie dell’Uomo Salice, diviene l’hobbit intraprendente che salva i compagni dallo spettro dei Tumuli.
A Rivendell, la storia assume una dimensione mitica, le vicende personali del piccolo gruppo di hobbit vengono inserite in un contesto storico. Frodo accetta il proprio destino di portatore di una missione universale. Il giovane nipote di Bilbo, che nella prima versione di The Lord of the Rings si chiamava Bingo, è divenuto Frodo, il Saggio, il dispensatore di pace e fertilità, e Tolkien è cresciuto insieme a lui.
È con la consapevolezza del nuovo valore assunto dalla propria creatura che Tolkien vede partire Frodo da Rivendell, incontro a un destino ancora incerto nella mente stessa dello scrittore.
“Good… good luck!” cried Bilbo, stuttering with the cold. “I don’t suppose you will be able to keep a diary, Frodo my lad, but I shall expect a full account when you get back. And don’t be too long! Farewell!
I personaggi, soprattutto Frodo e Sam, gli eroi della quest più difficile, i più cari all’autore, non perdono mai la coscienza di essere “personaggi”. Essi stessi delineano a grossi tratti le loro caratteristiche essenziali e sanno in partenza quali saranno le principali attrattive che eserciteranno sul lettore:
“and people will say: “let’s hear about Frodo and the Ring! And they’ll say: “yes, that’s one of my favorite stories. Frodo was very brave, wasn’t he dad? “Yes my boy, the famousest of the hobbits and that’s saying a lot.”
“But you’ve left out one of the chief characters: Samwise the stouthearted. “I want to hear more about Sam, dad. Why didn’t they put in more of his talk, dad? That’s what I like, it makes me laugh. And Frodo wouldn’t have got far, without Sam, would he, dad?
You Sam were meant to be solid and whole, and you will be.
Quasi figure pirandelliane, i protagonisti di The Lord of the Rings sono in cerca non tanto di un autore, bensì di un genere letterario nel quale essere inseriti. “Chissà in quale tipo di vicenda siamo piombati?” si chiede Sam. Sarà una fiaba a lieto fine? Un grande mito materia di canto negli anni a venire? Una delle tante storie mai raccontate perché finiscono male a causa della morte prematura, o della diserzione, dei personaggi?
Sam afferma di aver sempre ritenuto che i protagonisti delle avventure da lui amate fossero andati di propria volontà incontro al pericolo:
“The brave things in the old tales and songs, Mr Frodo: adventures as I used to call them. I used to think that they were things the wonderful folks of the stories went out and looked for, because they wanted them, because they were exciting and life was a bit dull, a kind of a sport, as you might say.”
“But that’s not the way of it with the tales that really mattered, or the ones that stay in the minds. Folk seem to have been just landed in them, usually. Their paths were laid that way, as you put it. But I expect they had lots of chances, like us; of turning back, only they didn’t. And if they had, we shouldn’t know, because they’d have been forgotten. We hear about those as just went on. And not all to a good end, mind you; at least not to what folk inside a story and not outside it call a good end. You know, coming home, and finding things all right, though not quite the same. Like old Mr Bilbo. But those aren’t always the best tales to hear, though they may be the best tales to get landed in! I wonder what sort of a tale we’ve fallen into?
Nella versione italiana del brano appena citato, il traduttore ha omesso il rigo “the folk inside a story and not outside it”, condensandolo in un anodino “i protagonisti” che riduce di molto la portata dell’affermazione di Sam, il quale mira ad un diretto coinvolgimento del lettore nella storia.
Come prima di lasciare Rivendell, i personaggi si soffermano a discutere col loro autore il possibile esito della vicenda, così, prima di affrontare la prova decisiva di Monte Fato, essi coinvolgono i lettori nelle loro riflessioni su se stessi come personaggi, sul genere letterario in cui si trovano inseriti, sulla qualità del mito, sul valore del lieto fine.
“I wonder”, said Frodo. “But I don’t know. And that’s the way of a real tale. Take anyone that you’re fond of. You may know, or guess, what kind of a tale it is, happy-ending or sad ending but the people in it don’t know. And you don’t want them to.”
Questo è un chiaro avvertimento al lettore: chi ha riconosciuto all’interno di The Lord of the Rings il modello della quest della fiaba, non può che essere sicuro del lieto fine della storia, ma ciò non deve impedirgli di comprendere fino in fondo le sofferenze atroci dei personaggi, i quali non sanno in quale genere di storia sono finiti e non possono prevederne la felice conclusione. Avere accettato il modello fiabesco della quest a lieto fine, non vuol dire togliere ai personaggi il loro valore umano, le loro sofferenze, il loro spessore. Forse qui Tolkien si sta davvero chiedendo se non sarebbe meglio rinunciare al lieto fine per non sminuire i personaggi, facendone dei semplici attori di funzioni fiabesche. Tolkien sceglie di rischiare.
Il modello della quest è lo stesso per tutti i racconti, tanto da fare di essi un’unica grande storia. All’interno di questo modello i personaggi cambiano, vanno e vengono a seconda della parte assegnata loro. Tuttavia, per il breve momento in cui hanno vita - momento che si ripete a ogni riapertura di libro - essi sono persone e non personaggi, e bevono fino in fondo il calice dell’amarezza o della gioia loro imposto.
“Beren now, he never thought he was going to get that Silmaril from the iron crown in Thangorodrim, and yet he did, and that was a worse place and a blacker danger than ours. But that’s a long tale, of course, and goes on past the happiness and into grief and beyond it. And the Silmaril went on and came to Earendil. And why, sir, I never thought of that before! We’ve got - you’ve got some of the light of it in that star-glass that the lady gave you! Why to think of it, we’re in the same tale still! It’s going on. Don’t the great tales never end? “No, they never end as tales” said Frodo. “But the people in them come, and go when their part’s ended. Our part will end later or sooner.”
Ci corre d’obbligo ricordare qui la similitudine col successivo “The Neverending Story” di Michael Ende.
Sam si chiede se finirà o meno in qualche racconto scritto. Egli è sicuro di star vivendo una storia, ma non tutte le storie vengono scritte: molto eroismo rimane sconosciuto.
“Still, I wonder if we shall ever be put into songs or tales. We’re in one, of course; but I mean put into words, you know, told by the fireside, or read out of a great big book with red and black letters, years and years afterwards.”
I personaggi di Tolkien si chiedono: riusciremo noi a veder pubblicato il libro in cui siamo contenuti? E ancora, ci permetteranno l’autore e i lettori di sapere come va a finire?
“We’re going on a bit too fast. You and I Sam, are still stuck in the worst places of the story, and it is all too likely that some will say at this point: “shut the book now, dad: we don’t want to read any more.”
Come nel famoso romanzo fantasy di Michael Ende, il lettore è trascinato all’interno del libro da un gioco di specchi, il cui riflesso passa dall’autore al personaggio e dal personaggio al lettore, risucchiandolo in una “storia infinita”. Frodo e Sam appartengono allo stesso racconto di Beren e Lùthien, noi apparteniamo alla storia di Frodo e Sam.
Anche il racconto più banalmente polarizzato in “buoni e cattivi” può risultare relativo:
“Things done and over and made into parts of the great tales are different. Why, even Gollum might be good in a tale, better than he is to have by you, anyway. And he used to like tales himself once, by his own account. I wonder if he thinks he’s the hero or the villain?”
“L’eroe o il cattivo?” chissà, basterebbe guardare il racconto da una prospettiva diversa e tutto si trasformerebbe.
Gollum, “the hero or the villain”, a scelta del lettore, ha un momento di autentica bontà. Ha appena tradito gli hobbits, consegnandoli, come un Giuda, nelle mani di Shelob, eppure quando li trova addormentati insieme, innocenti e semplici nel loro sonno di giusti, qualcosa si smuove in lui, vecchi ricordi di un passato di normalità, quando anche lui era un hobbit e aveva degli amici. Così,
“slowly putting out a trembling hand, very cautiously he touched Frodo’s knee. But almost the touch was a caress.”
Quello di Gollum è un gesto d’amore, ma Sam, svegliatosi di soprassalto, lo interpreta nel modo errato. Gollum si decide definitivamente ad abbandonarli a Shelob.
È significativo che ciò accada soltanto a due pagine di distanza dal discorso di Frodo sulla possibilità per Gollum di essere “il buono” o “il cattivo” della storia. Se Sam, “the hero”, non fosse stato tanto veloce nel condannare Gollum, “the villain”, la storia, forse, avrebbe potuto anche essere diversa. O forse no. La decisione sta al lettore.
Tolkien, alla fine del racconto, non s’identifica più con il cinquantenne Frodo dell’inizio del libro, ma col vecchio Bilbo. Sono passati quattordici anni da quando Tolkien ha cominciato a scrivere il libro. Egli ha ormai superato la sessantina e ci sono stati momenti in cui ha persino temuto di non essere, come Bilbo, in grado di vedere “gli ultimi capitoli della storia”. Tolkien sta ormai sperimentando l’esperienza irreversibile della vecchiaia; la esprime nella figura, accentuata, del vecchio hobbit sonnacchioso, confuso, incapace di finire il libro e persino di raccontare il motivo per cui l’ha iniziato.
La riflessione metanarrativa prosegue con Bilbo/Tolkien che parla del suo grande romanzo ormai agli sgoccioli:
“What’s become of my Ring Frodo, that you took away?”
qui “Ring” è chiaramente una sineddoche per The Lord of the Rings
“I have lost it Bilbo dear”, said Frodo. “I got rid of it, you know!” “What a pity!” said Bilbo. “I should have liked to see it again. But no, how silly of me! That’s what you went for, wasn’t it: to get rid of it? But it is all so confusing, for such a lot of other things, seem to have got mixed up with it: Aragorn’s affairs, and the White Council, Gondor, and the Horsemen and Southrons, and oliphaunts - did you really see one, Sam? - and caves and towers and golden trees, and goodness knows what beside.”
e lo paragona a The Hobbit:
“I evidently came back by much too straight a road from my trip.”
Al termine del terzo libro, si accenna al fatto che anche il capitolo ottanta del libro rosso è ormai completo, segue uno studio sui possibili titoli del Libro Rosso; quello adottato fornisce un’indicazione sull’ottica circoscritta scelta dall’autore: “as seen by the Little People”.
In conclusione, Tolkien sembra interrogarsi per tutto il libro sulla forma che questo deve assumere, sulla qualità dei propri personaggi, sul tipo di storia che sta scrivendo. Praticamente
“la quest di Frodo coincide con la quest dell’autore alla ricerca della sua identità di scrittore di favole per adulti” (O.Palusci)
Attraverso l’esame della struttura, delle componenti e di alcune tecniche stilistiche di The Lord of the Rings di J.R.R. Tolkien, siamo giunti alla conclusione che esistono innegabili somiglianze di carattere strutturale fra quest’opera e la fiaba. Tolkien, però, rielabora dall’interno il materiale fiabesco per poi distaccarsene. Infatti, affinché la tecnica fiabesca abbia ancora valore per dei lettori adulti, occorre che essa venga trasformata in un mezzo capace di trasmettere anche messaggi moderni e attuali. Attraverso un’evoluzione interna, la fiaba tolkieniana si arricchisce. Essa non si limita a raccontare una storia facilmente riassumibile in una serie di funzioni, bensì crea un “mondo secondario”, grazie alla particolarissima tecnica subcreativa. Approfondendo poi l’analisi psicologica dei personaggi, si trasforma in un genere che risulta una sintesi di fiaba e romanzo moderno, o meglio ancora, una grande fiaba per adulti. Questa, per altro, è la caratteristica principale di tutta la letteratura fantasy, la quale deriva proprio dalla fusione del mondo fiabesco con la tecnica narrativa “realistica”:
“fantasy, a new genre which used narrative conventions to remake the world of fairy-stories by way of realistic fiction.” (P. Grant)
Patrizia Poli
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