4. Oltre la fiaba
Tolkien recupera il modello fiabesco rendendolo adatto a un pubblico adulto e moderno. Usa la fiaba perché essa è capace di creare “credenza secondaria”, di cattivare l’interesse del lettore, di affascinarlo e di rendere più ricca e fantastica la sua vita. Una volta catturato il lettore dentro la fiaba, fa di essa uno strumento di ricerca etica oltre che di evasione. Con questo non vogliamo sminuire il valore che la fiaba ha di per sé per Tolkien, come fonte di evasione e godimento fantastico, tuttavia egli si accorge anche che la struttura fiabesca può diventare un potente mezzo per rappresentare problemi e valori significativi.
Ciò non vuol dire fare della fiaba un’allegoria. Tolkien ha sempre detestato l’allegoria, che riteneva fredda e sterile. Le preferiva il concetto di applicabilità (“applicability”) per mezzo del quale alcuni elementi di un’opera narrativa, e non, vengono “applicati” naturalmente dai lettori a situazioni della loro vita - quasi allegorie di essa - senza che questa fosse l’intenzione primaria dell’autore.
“I cordially dislike allegory in all its manifestations. (…) I much prefer history true or feigned, with its varied applicability to the thought and experience of readers. I think that many confuse “applicability” with “allegory”; but the one resides in the freedom of the reader, the other in the purposed domination of the author.”
Fra uno scoppiettio di avventure e personaggi fantastici che divertono il lettore e ne monopolizzano l’attenzione, la “fiaba” The Lord of the Rings riesce a svolgere temi profondi e universali che fanno del libro un’opera ricca di significato. In questo modo essa si trasforma, attraverso un’evoluzione interna, in un genere che risulta una sintesi di fiaba e romanzo moderno.
Tolkien ha parlato per la fiaba di “tre specchi”.
La fiaba ha uno specchio mistico volto al soprannaturale, uno specchio magico rivolto alla natura e uno specchio di “scorno e di pietà” rivolto verso l’uomo. Questo terzo specchio è la lente che ci permette di scoprire di che pasta siamo veramente fatti. Nella “fiaba” The Lord of the Rings questa componente psicologica è notevolmente sviluppata.
Sembra essere una caratteristica della letteratura “fantasy” quella di fondere il materiale di natura avventurosa e fantastica con elementi psicologici. La fantasy - pur muovendosi in un mondo di stampo medievaleggiante - è un genere moderno che affonda le sue radici nella cultura novecentesca. Non siamo d’accordo con chi fa risalire la fantasy ad una tradizione di letteratura fantastica comprendente Carrol o Kipling. La fantasy costituisce un filone a parte della letteratura fantastica.
La fantasy è nata nel mondo anglosassone, soprattutto grazie a Tolkien e agli Inklings, un gruppo di filologi e studiosi di letteratura medievale. Essi hanno cercato di riprodurre quel mondo medievale di natura mitica e fiabesca in cui trovavano diletto. La loro narrativa è ambientata in eterocosmi soprannaturali, di stampo medievaleggiante. Essa ha come argomento quests perigliose, intraprese da eroi quotidiani, dal cui successo dipende la salvezza del mondo intero (vedi Le Cronache di Narnia di C.S. Lewis) e il cui fallimento equivarrebbe alla vittoria definitiva del mondo demoniaco.
Grazie al successo di Tolkien, in Inghilterra e negli Stati Uniti la sua opera è stata imitata da numerosi epigoni che hanno dato inizio a una tradizione fantasy.
La fantasy non può che tener conto dell’influenza esercitata in tutti i campi da Jung e da Freud, e degli ultimi sviluppi della narrativa, con l’enorme impulso dato al romanzo psicologico.
In The Sword of Shannara, del popolare scrittore americano di fantasy Terry Brooks, l’unico talismano in grado di sconfiggere il terribile Signore degli Inganni, chiaramente un calco del Signore degli Anelli di Tolkien, è una spada, la cui proprietà è di far conoscere a chi la tocchi la verità su se stesso. Venire in contatto con la spada di Shannara significa iniziare un processo d’introspezione che per alcuni risulta fatale. Non sempre, infatti, siamo in grado di accettare la verità su noi stessi, cioè la piena coscienza della nostra fragilità, del nostro egoismo, della nostra viltà. Per mezzo della spada di Shannara, vengono a cadere tutte le maschere pirandelliane che ci siamo costruiti e che ci permettevano di crederci degni di rispetto e fiducia.
L’Unico Anello di The Lord of the Rings, come la spada di Shannara, è un oggetto magico di natura psicologica che ci dimostra come Tolkien si sia servito degli elementi fiabeschi per introdurre una problematica che tiene conto delle inquietudini dell’uomo moderno.
L’Anello può essere considerato un simbolo psicanalitico di ambivalenza. Esso costituisce un centro di attrazione fatale, produce una assuefazione molto simile a quella data dall’eroina, suscita contemporaneamente odio e amore intenso. Con questa sua doppia natura - malvagia e affascinante insieme - fa sì che la personalità dei suoi possessori si dissoci in senso schizofrenico.
L’Anello agisce - come Iago nell’Othello shakesperiano - facendo leva sulle debolezze dei personaggi. Esso fa emergere la parte oscura di ognuno di noi: la possessività di Bilbo, l’orgoglio di Boromir, la debolezza di Gandalf, la paura di Frodo.
Solo Gandalf ha piena coscienza del modo in cui l’Anello manovra le menti dei suoi possessori e, pur avendo un gran bisogno dell’aiuto che esso può dargli, si rifiuta di adoperarlo per evitare che la sua volontà e il suo cuore vengano corrotti.
“Do not tempt me!”
Si noti quante volte nel romanzo ricorre la parola “tentazione”.
“For I do not wish to become like the Dark Lord himself. Yet the way of the Ring to my heart is by pity, pity for weakness and the desire of strength to do good. Do not tempt me I dare not take it, not even to keep it safe, unused. The wish to wield it would be too great for my strength. I shall have such need of it”.
Un altro termine al quale far attenzione è “pity” pietà, misericordia. Vedremo presto perché.
L’Anello agisce anche distorcendo i sentimenti positivi delle persone che vengono in contatto con esso, volgendo in male le loro intenzioni buone.
Non si sa mai se è veramente l’anello che è riluttante a lasciare il possessore, o se è il possessore che, temendo di perderlo, vi proietta la sua possessività e non lo lascia andare.
“Two possible views of the Ring are kept up throughout the three volumes: sentient creature, or psychic amplifier.” (T.S.Shippey)
L’anello è un invito continuo a cadere nella tentazione. Esso è inoltre è anche un simbolo dell’Io.
L’Unico anello è anche “l’Anello dell’Unicità”, dell’individualità sfrenata. Mettersi l’anello significa divenire invisibili, cioè asociali, separati dal resto del mondo, monadi chiuse nel proprio egoismo. Arrogarsi definitivamente l’Anello, poi, indica potere assoluto e quindi massimo sviluppo dell’Io.
Rose A. Zimbardo fa notare che l’appellativo di Sauron “Lord of the Eye” può essere anche letto come “Lord of the I”, cioè signore dell’Io sfrenato.
“We are each of us “Ring-bearers”, for the smallest but most important of the Rings” that the great Lord of rings holds is each creature’s idea of self.”
Se l’Anello rappresenta la propria individualità, nessuno può avere la forza di gettarlo via di propria iniziativa. Ecco perché Frodo, proprio sull’orlo della voragine di Sammath Naur, dove è giunto dopo aver lottato per un anno intero, decide di non fare ciò per cui vi si è recato e di tenersi l’Anello. La caduta di Frodo è un momento fondamentale nell’economia del romanzo. Nessuno avrebbe potuto fare più di Frodo e Tolkien lo sa. È per questo che, sulla cima di Monte Fato, quando tutto ciò che era umanamente possibile fare è stato fatto, la provvidenza interviene sotto forma di Gollum.
Frodo rappresenta l’uomo comune attaccato alla propria individualità. Egli non può gettare via spontaneamente l’Anello dell’io. Anche per il più fervente dei cattolici, infatti
“the self is our only known life.” (R.A.Zimbardo)
Perché mai dovrebbe un uomo rinunciare alla propria individualità quando non sa se, di là da essa, vi sia veramente qualcosa per cui valga la pena lottare e sacrificarsi?
Perfino Gandalf il Bianco, l’inviato dei Valar, non conosce l’esito della battaglia contro Sauron, non sa, cioè, se effettivamente esiste un piano provvidenziale che ci riguarda.
L’Anello diventa anche un simbolo della continua tentazione alla sfiducia, al pessimismo, a rinchiudersi in se stesso, cui è sottoposto il cristiano.
Tolkien, pur presentando la provvidenza in atto, non ci offre, con la figura di Frodo, l’immagine di una fede incrollabile, bensì di un impegno morale costante ma privo di speranze.
“All right, Sam”, said Frodo. “Lead me! As long as you’ve got any hope left. Mine is gone.”
Frodo è un ”cristiano” che, pur non mancando di “carità”, ha perso ogni “fede ” e “speranza”. Il cattolicissimo Tolkien vive in realtà un cattolicesimo problematico e sofferto.
Ciò traspare anche dal modo in cui affronta il problema della morte nel Silmarillion e nelle appendici di The Lord of the Rings. Risulta chiaro, infatti, che egli non ha ancora accettato l’idea della morte che, nel Silmarillion, diventa lo sgradito “dono” concesso da Ilùvatar soltanto alla razza umana.
La tradizionale ambiguità degli elfi delle fiabe, che li vede ora benevoli ora maligni verso gli umani, viene sfruttata da Tolkien ancora una volta in senso psicologico.
La loro terra, il Bosco d’Oro di Lorien, è una perigliosa contrada di cui si racconta che pochi di coloro che vi mettono piede ne escano, ma, come dice Sam, “la gente porta con sé il proprio pericolo e poi lo ritrova a Lorien perché se l’è portato dietro.”
La regina di quella terra, Galaldriel, diventa lo specchio dell’anima dei suoi interlocutori, “pericolosa” nella misura in cui incontrarla vuol dire scoprire se stessi.
“If you want to know, I felt as if I hadn’t got nothing on, and I didn’t like it” dice Sam esprimendo ciò che ha provato sotto lo sguardo di Galadriel.
“She seemed to be looking inside me and asking me what I would do if she gave me the chance of flying back home”.
Lo specchio di Galadriel terrorizza Frodo solo perché gli mostra l’occhio di Sauron, l’occhio penetrante, vigile, che fruga nei recessi dell’anima sconvolgendola, forse, in realtà, soltanto l’occhio della coscienza.
The Lord of the Rings, pur portando alle estreme conseguenze la polarizzazione fiabesca in buoni e cattivi, presenta anche delle ambiguità che rispecchiano le ambivalenze e i conflitti del mondo moderno.
In questo modo, accanto ai tipici personaggi fiabeschi, nel romanzo convivono altri tipi di personaggi creando un’impressione di sincretismo. Siamo di fronte ad una mescolanza di tecniche antiche e moderne.
In primo luogo, in The Lord of the Rings si ritrovano dei personaggi che risultano in realtà delle “maschere”. Vi sono poi dei “tipi” o caratteri fissi ben definiti. A questi si mescolano dei “personaggi” veri e propri, che possiedono un certo spessore psicologico e possono cambiare col mutare delle circostanze.
Abbiamo, infine, uno specifico personaggio ambivalente che incarna le conflittualità a cui è abituato il lettore di romanzi di oggi.
Le maschere sono costituite da tutte quelle creature del male che non rientrano come gli Orchi nell’ambito delle tradizionali figure malvage delle fiabe. Le maschere del male tolkieniane rispecchiano in pieno la polarizzazione fiabesca e la esasperano addirittura in funzione etica.
I Nazgul, le terribili creature alate che, sorvolando i territori dei Popoli Liberi, i incutono un terrore che gela il sangue e paralizza i movimenti; i Ringwraiths, spettri informi e sibilanti; il mostro del lago, di cui si intravedono solo i lunghi e vischiosi tentacoli; Sauron, il Signore degli Anelli, tutto concentrato nel suo unico, spaventoso, vigile occhio senza palpebra; e, soprattutto, l’indimenticabile Shelob, sono tutte incarnazioni potenti del male assoluto.
Per il suo nuovo libro che parla di una lotta di natura eminentemente etica, lo studioso di Beowulf, l’inventore di Smaug, Glaurung, Chrisophilax, questa volta non usa il drago, ma sfodera tutta una casistica di nuove, orripilanti, creature del male, le quali trasudano odio e malvagità gratuita.
Ciò che ci terrorizza nei mostri tolkieniani, infatti, non è tanto il loro aspetto mostruoso, quanto l’odio e la malvagità inspiegabile che da esso emana.
Shelob è un enorme ragno cupido che vive preoccupandosi solo di saziare l’ingordigia del suo ventre. Shelob ha grandi corna, un tozzo e corto collo dietro il quale ondeggia un immenso corpo gonfio, un tumido sacco straripante fra le sue gambe, una massa nera macchiata di segni lividi emanante un orrendo fetore, con zampe curve, giunture nodose, peli irsuti come spine d’acciaio e un artiglio all’estremità di ogni membro.
La descrizione di questo essere è perciò piuttosto impressionante, eppure, più terribile ancora della piena visione del suo corpo, è la prima immagine che il lettore ha di esso: un ciuffo d’occhi affioranti dall’oscurità, pieni d’incontenibile cattiveria.
“Even as Frodo spoke he felt a great malice bent upon him, and a deadly regard considering him. Not far down the tunnel, between them and the opening where they had reeled and stumbled, he was aware of eyes growing visible, two great clusters of many-windowed eyes - the coming menace was unmasked at last. The radiance of the star-glass was broken and thrown back from their thousand facets, but behind the glitter a pale deadly fire began steadily to grow within, a flame kindled in some deep pit of evil thought. Monstrous and abominable eyes they were, bestial and yet filled with purpose and with hideous delight, gloating over their prey trapped beyond all hope of escape.”
Gli elementi “orridi” in Tolkien, oltre che mirare alla “sensazione”, hanno valore etico: incontrare i suoi mostri malvagi, i suoi alberi dal cuore marcio, le sue montagne crudeli, le sue “cose innominate”, è come trovarsi improvvisamente al cospetto di Satana.
Negli “Unfinished Tales” Tolkien cerca di riportare tutte le creature malvage a un’unica fonte: Morgoth, il demonio. Fortunatamente, questi racconti incompiuti non sono stati inseriti in The Lord of the Rings, che rimane così tanto più conturbante in quanto gran parte della natura in esso contenuta è ostile e cattiva senza una ragione. Il male rimane gratuito e incomprensibile.
“There are many evil and unfriendly things in the world that have little love for those that go on two legs, and yet are not in league with Sauron.”
Le creature del male tolkiniane sono personificazioni della malvagità che pervade il mondo, tuttavia esse non sono fredde allegorie. I mostri della Middle Earth sono esseri fantastici che arricchiscono il mondo che abitano e suscitano nel lettore meraviglia, emozione, curiosità.
Riferendosi alle proprie impressioni infantili riguardo ai mostri della mitologia, così Tolkien si esprime in On Fairy-stories:
“the world that contained even the imagination of Fafnir, was richer and more beautiful, at whatever cost of peril.”
Alla categoria dei tipi appartengono i grandi eroi: Aragorn, Boromir, Faramir, Eowyn, Theoden, Denethor, Eomer, Imhrail etc.
“Tra i “tipi” o caratteri rientrano essenzialmente gli uomini, che hanno, a differenza delle allegorie, una certa dinamica interna, sono soggetti a mutamento, compiono delle scelte, combattono con un preciso scopo finale, ma sia le loro certezze che i loro dubbi, ricalcano moduli ben definiti, così che, ad esempio, la “tentazione” a cui Boromir cede (quando cerca di strappare l’Anello a Frodo) è già tutta dentro il discorso iniziale pronunciato nel Concilio di Elrond che individua un “tipo” di guerriero attraverso una serie di attributi.” (O. Palusci)
In genere, questi eroi hanno caratteristiche tipiche degli eroi del mito celtico e germanico. Essi costituiscono dei “tipi” fissi in quanto ricalcano tipologie mitiche tradizionali.
I personaggi veri e propri sono gli Hobbits. Gli Hobbits sono una totale invenzione di Tolkien, non essendo riscontrabili in nessuna tradizione fiabesca, come avviene invece per elfi, nani, trolls, maghi.
Frodo, Sam, Merry, Pippin sono personaggi di un certo spessore che durante il corso della narrazione cambiano e maturano. Pippin e Merry, da ragazzini spensierati, si trasformano in hobbits maturi, in grado di porsi a capo della Contea. Sam, già fedele e affettuoso, impara sempre più il valore della lealtà e mette alla prova la sua dedizione nei confronti di Frodo. Egli comprende qual è il proprio ruolo nella storia: fare da gregario al padrone. A volte maturare significa anche rendersi conto della portata limitata delle proprie azioni:
“I can’t help it. My place is by Mr Frodo. They must understand that - Elrond and the Council, and the great lords and ladies with all their wisdom. Their planes have gone wrong. I can’t be their Ring-bearer. Not without Mr Frodo.”
Insieme a Frodo, Sam scopre il valore della pietà.
Tolkien ha affermato che quello di pietà è un concetto estraneo alla mente infantile. I bambini vogliono la giustizia, vogliono veder punite le sorellastre di Cenerentola e la matrigna di Biancaneve. La compassione fine a se stessa è un sentimento che solo gli adulti possono concepire. The Lord of the Rings è anche uno studio sulla pietà. In questa fiaba è proprio un atto di pietà a determinare tutto il corso degli eventi.
Nella prima versione di The Hobbit, al momento dell’acquisto dell’Anello da parte di Bilbo, egli si limitava a fuggire col suo tesoro. Nella seconda versione, questa scena importante viene modificata per accordarla maggiormente allo spirito di The Lord of the Rings: Bilbo, sul punto di uccidere Gollum che lo insegue per riprendersi l’Anello, colto da compassione, lo risparmia. Nel racconto che Gandalf fa a Frodo di questa scena, viene introdotto per la prima volta il concetto di pietà.
Dopo aver perso l’anello, sottrattogli da Bilbo, Gollum è partito alla sua ricerca ed è finito nelle grinfie di Sauron. Grazie a lui, adesso il Signore degli Anelli sa che un Baggins possiede l’Unico. Quando Frodo - nel primo libro - viene a sapere questo, sbotta:
“What a pity that Bilbo did not stab that vile creature, when he had a chance!”
Ma Gandalf lo interrompe:
“Pity? It was pity that stayed his hand. Pity and Mercy: not to strike without need. And he has been well rewarded, Frodo. Be sure that he took so little hurt from the evil, and escaped in the end, because he began his ownership of the Ring so. With pity ”. “I am sorry” said Frodo. “But I am frightened; and I do not feel any pity for Gollum”. “You have not seen him” Gandalf broke in. “No, and I don’t want to”, said Frodo “I can’t understand you. Do you mean to say that you and the elves, have let him live on after all those horrible deeds? Now at any rate he is as bad as an orc, and just an enemy. He deserves death.”
“Deserves it! I dare say he does. Many that live deserve death. And some that die deserve life. Can you give it to them? Than do not be too eager to deal out death in judgement.”
Nel secondo libro Frodo incontra Gollum a faccia a faccia. Sam gli consiglia di sbarazzarsi della vile creatura ma Frodo, ricordando le parole di Gandalf, non ha il coraggio di calare la spada sul misero essere.
“Very well”, he answered aloud, lowering his sword. “But still I am afraid. And yet, as you see, I will not touch the creature. For now that I see him, I do pity him.”
Nel terzo libro toccherà a Sam risparmiare Gollum, proprio l’essere che egli detesta di più al mondo. Lo schema è preciso: il valore della pietà è trasmesso da Bilbo a Frodo e da Frodo a Sam. Sia Frodo che Sam subiscono un identico sviluppo. Frodo non capisce l’atto di Bilbo ma poi si comporta come lui, lo stesso accade a Sam che, da principio non comprende la pietà di Frodo, ma poi non riesce ad uccidere il disgraziato Gollum.
“Sam’s hand wavered. His mind was hot with wrath and the memory of evil. It would be just to slay this treacherous, murderous creature, just and many times deserved; and also it seemed the only safe thing to do. But deep in his heart there was something that restrained him: he could not strike this thing lying in the dust, forlorn, ruinous, utterly wretched.”
L’atto di pietà congiunto di Bilbo, Frodo e Sam, tre portatori dell’Anello, i quali risparmiano la vita di una creatura insignificante e in buona parte anche malvagia, si rivela provvidenziale. Bilbo, Frodo e Sam saranno salvati dagli effetti malefici dell’Anello, i loro cuori rimarranno puri. Gollum, poi, ha un’ultima fondamentale parte da interpretare nella storia, sarà lui a permettere l’effettiva distruzione dell’Anello del male.
Gli hobbits sono personaggi a “tutto tondo” che subiscono trasformazioni all’interno del romanzo. I loro pensieri sono sempre registrati direttamente dall’interno.
Tolkien ha adottato la tecnica del punto di vista circoscritto. Tutti i grandi avvenimenti sono filtrati attraverso gli occhi degli hobbits, i piccoli eroi fiabeschi. Almeno un hobbit è sempre presente nei momenti salienti. Se uno degli hobbits non può essere presente ad un avvenimento, questo non viene vissuto direttamente dal lettore ma raccontato brevemente dai personaggi che vi hanno preso parte. In questo modo, Tolkien rinuncia ad una scena fondamentale come l’attraversamento, da parte di Aragorn, dei Sentieri dei Morti, pur di non abbandonare il punto di vista hobbit.
L’adozione del jamesiano punto di vista circoscritto fa della “fiaba” The Lord of the Rings un romanzo psicologico in cui i personaggi vengono analizzati dall’interno e gli eventi osservati di scorcio, non dalla prospettiva dei grandi protagonisti del mito - i quali si trovano a loro agio nell’atmosfera epica e irreale - bensì dei piccoli, goffi, impacciati hobbits. È come se, invece di assistere alla lotta con Grendel attraverso gli occhi di Beowulf, vi assistessimo attraverso gli occhi prosaici e disincantati del suo gregario.
Agli hobbits sono concesse le maggiori caratteristiche umane, o meglio, quelle che l’uomo dovrebbe avere: lealtà, tenacia, resistenza, coraggio. L’uomo è l’hobbit, piccolo in un mondo grande, governato da leggi incomprensibili. Come l’hobbit, sa a volte assurgere a dimensioni gigantesche, per combattere con il suo coraggio e il suo spirito di sacrificio.
Tolkien ammette di aver tratto ispirazione per i suoi hobbits dai soldati che gli erano sottoposti nella prima guerra mondiale, ragazzi semplici che, coraggiosamente, si sacrificavano per la propria patria in una guerra non voluta da loro.
È interessante notare come gli hobbits, i quali, come si è detto, più di tutti incarnano aspetti psicologici umani, rappresentino nel libro tutte le età dell’uomo: Pippin l’adolescenza, Merry la giovinezza, Frodo la mezza età e Bilbo la vecchiaia. In questo modo vengono presentati gli stadi della vita umana.
Tolkien riesce a compendiare la psicologia individuale con quella collettiva di razza, di stirpe, di età, dandoci un quadro ricco e vivace.
I tratti psicologici degli hobbits emergono più dal loro dialogo che non dalle descrizioni dell’autore.
La prima descrizione che abbiamo di Frodo ci deriva dai commenti dei suoi pettegoli compaesani e il ritratto che ne emerge è abbastanza inconcludente, giacché a parlare di lui sono persone che lo conoscono solo di vista. Il lettore comprenderà a pieno Frodo solo al termine del libro, dopo che avrà vissuto con lui tutte le prove, dopo che lo avrà visto superare la tentazione o cadervi, aiutare gli amici o provare l’impulso di fuggire lasciandoli in pericolo, aver paura o essere fiducioso. La caduta di Frodo, il suo perdono di Gollum, la sua rinuncia alle armi, e la partenza verso i Porti Grigi, sono pennellate finali date a un ritratto che si conclude solo con il termine del libro.
Su un sostrato genetico di lealtà, bontà e tenacia hobbit, di paura “Baggins”, e d’intraprendenza “Took”, Frodo inserisce apporti dall’ambiente. Il suo ritratto non può essere dipinto all’inizio del libro da un autore onnisciente perché Frodo è ciò che è al termine del racconto solo a causa delle vicissitudini affrontate, cioè dell’influenza dell’ambiente e dell’esperienza.
La quest nella fiaba tolkiniana si trasforma in esperienza formativa che permette ai personaggi di collaudare il loro carattere, la loro forza morale, il loro coraggio. Essa fa emergere le virtù dei quattro hobbits che altrimenti resterebbero nascoste e sconosciute ai loro stessi possessori. Essa può altresì far emergere debolezze e vigliaccherie di cui i protagonisti non avevano coscienza.
Alla quest come esperienza formativa, reagente capace di evidenziare i tratti caratteriali dei protagonisti della fiaba, fa riferimento Elrond quando invita i componenti della Compagnia dell’Anello a non giurare:
“of your hearts, and you cannot foresee what each may meet upon the road.” “no oath or bond is laid on you to go further than you will. For you do not yet know the strength of your hearts, and you cannot foresee what each may meet upon the road.”
La quest come esperienza formativa è caratteristica di tutte le fiabe popolari.
La quest de “L’Uccello d’Oro” aiuta Bertrando a riconoscere il male anche quando si nasconde sotto un volto familiare, la quest de “Gli Undici Cigni” mette alla prova l’amore della protagonista per i fratelli.
Tuttavia, nelle opere tolkieniane e nella letteratura fantasy in generale, questo aspetto è potenziato in modo sorprendente con una copiosa dose di riferimenti espliciti.
Il viaggio di Frodo assume sempre più il carattere di ricerca etica interiore. Frodo e i compagni “discendono” all’interno di se stessi per cercarvi il coraggio e la volontà necessari a superare tutte le prove.
In The Lord of the Rings è presente un personaggio la cui caratteristica è di essere per natura ambivalente.
Grandissima parte della critica si è accanita contro il romanzo di Tolkien perché lo considera troppo polarizzato. S’insiste che i buoni sono troppo buoni e i cattivi troppo cattivi, che il simbolismo della luce e del buio, del bianco e del nero, è troppo ovvio.
Secondo noi, invece, Tolkien ha una netta percezione delle ambivalenze e contraddizioni presenti nella vita di tutti i giorni. Scrivendo un romanzo fantasy, però, egli non può fare dei suoi protagonisti dei personaggi complessi, sfaccettati, ambivalenti quali uno “Stephen Dedalus”, un “Moses Herzog”, o una “Anna Freeman”. Nell’economia della narrativa fantasy ciò sarebbe fuori luogo. Tolkien deve trovare il modo di oggettivare in simboli anche le componenti ambivalenti della realtà.
Nella fantasy tolkieniana, come c’è un drago per rappresentare il male assoluto, così c’è uno specifico personaggio ambivalente per rappresentare i conflitti interni. Invece di rendere troppo sfaccettato Frodo, gli si crea un alter ego, Gollum, forse il personaggio più affascinante di tutto il libro, quello su cui ogni critico si sofferma almeno una volta.
La mente di Gollum è stata distorta dal contatto prolungato con l’Anello. Il suo possesso dell’Unico è iniziato con un assassinio e da allora la sua malvagità è cresciuta, facendone una creatura viscida, acquatica, cannibalesca, strisciante, spesso associata con ragni e insetti schifosi. Eppure, nella sua mente è ancora un cantuccio di bontà, uno spiraglio di normalità, ed è questo a dilaniarlo. È uno schizofrenico, la cui natura è scissa in due.
La parte malvagia, snaturata e deformata dall’ossessione dell’Anello, risponde al nome di Gollum e parla sempre al plurale con un’abbondanza di sibili e gorgoglii, rivolgendosi a se stesso oppure all’Anello, “My Precious”. La parte ancora intatta conserva il nome originale Smeagol, parla in prima persona e inspiegabilmente si affeziona a Frodo.
Anche il tessuto linguistico del testo segue questa scissione del personaggio associandolo di volta in volta con un CANE o con un RAGNO.
Uno dei momenti più commoventi del libro è il dibattito che le “due parti” di Gollum (significativamente denominate da Sam “Slinkler” e “Stinker”) tengono fra di loro di fronte a Frodo addormentato. Gollum deve decidere se tradire o no l’hobbit che possiede sì il suo “tessssoro”, ma che è stato gentile e compassionevole con lui.
“Gollum was talking to himself. Smeagol was holding a debate with some other thought that used the same voice but made it squeak and hiss. A pale light and a green light alternated in his eyes as he spoke.”
“Gollum” cerca di convincere “Smeagol” che l’unica cosa importante è riprendere l’Anello. “Smeagol” piagnucola che Frodo è stato buono con lui e non vorrebbe fargli del male.
“Nice hobbit! He took cruel rope off Smeagol’s leg. He speaks nicely to me.”
Alla fine “Gollum” ha il sopravvento:
“Each time that the second thought spoke, Gollum’s long hand crept out slowly, pawing towards Frodo, and then was drawn back with a jerk as Smeagol spoke again. Finally both arms, with long fingers flexed and twitching clawed towards his neck.”
Gollum è uno studio tolkieniano sull’ossessione e la dannazione. Più che ribrezzo, egli ispira pietà, persino a Sam, il suo acerrimo nemico:
“Sam himself, though only for a little while, had borne the Ring, and now dimly he guessed the agony of Gollum’s shriveled mind and body, enslaved to that Ring, unable to find peace or relief ever in life again.”
Fra Gollum e Frodo esiste una somiglianza che anche Sam nota:
“the two were in some way akin and not alien: they could reach one another’s mind.”
Anche Gollum è di discendenza hobbit. Gollum è ciò che Frodo potrebbe diventare se si lasciasse andare al potere dell’Anello, è il doppio di Frodo, il alter ego.
In The Lord of the Rings si rinuncia al drago e, come fa notare Verlyn Flieger, s’introduce un nuovo tipo di “mostro.” Anche questa è una prova del sincretismo di Tolkien che la Flieger chiama “modern medievalism”: conflitti moderni vengono rappresentati con tecniche antiche proprie del romance.
La battaglia di Frodo è di natura psicologica, il campo di battaglia Frodo stesso, eppure
“the disrupted forces of darkness and inner conflicts must be represented by persons or objects outside the heroic characters.” (V. Flieger)
Per questo viene introdotto Gollum, il pazzo, in quanto
“today’s readers of a modern narrative, however medieval its spirit, may be reluctant to accept a truly medieval monster - a dragon or a fiend - but he is accustomed to accepting internal conflict, man warring with himself.”
Di là dalla lotta comune contro Sauron, ognuno di noi deve combattere una lotta personale contro il proprio Gollum, la parte oscura, inaccettata, di noi, la materializzazione dell’inconscio.
Durante tutto il tormentoso viaggio attraverso Mordor, Frodo, praticamente, sparisce come individualità pensante. Di lui rimane solo un corpo che si fa sempre più pesante da trascinare. I suoi pensieri ci sono noti attraverso i ragionamenti e le azioni dei suoi compagni: Sam, la buona coscienza, il super- io che si carica l’io in spalla fino alla meta, e Gollum, l’ombra, il mostro dell’id che spinge l’io sull’orlo della rovina, ma, all’ultimo minuto, lo salva, autoannullandosi. Gollum cade nel baratro: il male distrugge se stesso.
Dopo Gollum, il simbolo più potente di ambivalenza è rappresentato dai vestiti di Saruman.
Quando era ancora il più saggio del bianco consiglio degli Istari, Saruman indossava un abito condido. Al momento del suo tradimento, la sua veste appare cosparsa di molti colori cangianti. Saruman, da Bianco che era, è sulla via di diventare Nero, come l’oscuro Signore, poiché medita il tradimento.
Dice Gandalf:
“I looked than and saw that his robes, which had seemed white, were noto so, but were woven of all colors, and if he moved they shimmered and changed hue so that the eye was bewildered. “I liked white better”, I said. “White!” he sneered. “It serves as a beginning. The white cloth may be dyed. The white page can be overwritten; and the white light can be broken.” “In which case it is no longer white”, said I”.
E bianco, totalmente bianco, in un percorso inverso, diverrà l’abito di Gandalf dopo la lotta col Balrog e la sua resurrezione.
Lungi dal non riconoscere l’esistenza delle ambivalenze, Tolkien c’invita anzi a individuarle per distruggerle. Non è d’accordo con i compromessi: se la pagina bianca viene coperta di scritto, non è più bianca, se si scende a patti con il male, non si è più dalla parte del bene. Forse si può accusare Tolkien di avere una morale troppo rigida, ma non si può affermare che egli non riconosca la facilità con cui il male s’insinua anche nei personaggi più positivi.
Manlove lamenta che i personaggi di Tolkien non vengono mai effettivamente tentati. Ciò non è vero: Galadriel, Gandalf, Aragorn, Faramir, Frodo, devono compiere uno sforzo per restare fedeli alla propria natura fondamentalmente buona. Devono uccidere, giorno dopo giorno, il loro Gollum. Manlove sembra dimenticare la caduta finale di Frodo e lo scatto di cattiveria di Bilbo quando Gandalf gli chiede di togliersi l’Anello. Vi sono “buoni” che soccombono alla tentazione, come Boromir e Frodo, o che si lasciano traviare, come Saruman, Denethor e Theoden.
La Middle Earth non è un mondo idilliaco minacciato da una forza oscura, è, al contrario,
“un mondo decisamente post lapsarian, i cui abitanti, oltre a dare esempi di lealtà, onestà, valore, costanza, mostrano anche di essere facile preda delle passioni umane, mentre la natura medesima si mostra spesso nei suoi aspetti più duramente ostili.” (E. Giaccherini)
Quello di The Lord of the Rings non è un mondo facilmente comprensibile dai bambini, i quali sono in grado di capire solo le nette divisioni.
In The Hobbit, un libro decisamente per l’infanzia, anche la geografia rispettava queste divisioni precise. Vi erano luoghi “di pericolo” e luoghi “di rifugio”. A questo proposito, The Lord of the Rings è molto più ambiguo, la foresta di Fangorn, ad esempio, è un posto sia pericoloso sia accogliente; alcuni dei personaggi vi si ambientano, altri provano un senso di soffocamento e fastidio.
A un primo livello di lettura, abbiamo la fiaba, dove i personaggi sono buoni o cattivi, senza possibilità di mescolanza fra i generi. A un secondo livello di lettura, però, dalle distinzioni nette si diramano dei filamenti, delle sfumature, che sfaldano i contorni dei colori precisi. Gollum, Saruman, Boromir e soprattutto la contea distopica del finale del libro, ci mostrano quanto la natura umana sia facile a farsi corrompere: “l’abito bianco può essere tinto”.
“Some critics object that the trilogy presents too simple a vision of good and evil, but though Tolkien follows convention in associating light with good and dark with evil, hand images reflect a morality that is no more black-and-white matter - both the black hand of Sauron and the white hand of Saruman represent evil, and the hands of the good characters hurt as well as heal - ( the healing hand should also bear the sword) M. Perret
Una stessa mano può dunque contenere il male e il bene, l’Anello di Sauron e la fiala di Galadriel.
Alla categoria dei critici ai quali dà fastidio la simbologia fortemente polarizzata di The Lord of the Rings, appartiene Chaterine Stimpson, la quale sostiene che
“Tolkien’s dialogue, plot, and symbols are terribly simplistic. A star always means hope, enchantment, wonder; an ash heap always means despair.”
Come abbiamo visto, per la simbologia legata all’immagine della mano, ciò non accade. La Stimpson non comprende che la grande fiaba tolkieniana ha bisogno, di là dalle complessità del romanzo moderno - che, pure, ribadiamo, esistono - di simboli puri e cristallini. Essi indicano da che parte sta il bene, quello eterno, assoluto, quello che, come dice Aragorn, “è lo stesso per Ents, Elfi, Nani, Uomini e Hobbits”, quello, insomma, sottoposto da Tolkien a un processo di recovery.
Tolkien ha sempre affermato di non procedere per simboli. La sua è una narrativa fatta di cose. Gli elementi dei suoi libri hanno valore di per sé e non perché stiano al posto di qualcos’altro. Una stella non è la speranza ma dà speranza, pur restando, anzi proprio perché è, una meravigliosa stella.
Nella fiaba tolkieniana i simboli sono tutt’uno con la cosa che simboleggiano. Il simbolismo scaturisce dalla natura stessa degli oggetti che vengono inseriti nella narrazione, come parte integrante e indispensabile di essa. L’oggetto rimane sempre, soprattutto, se stesso.
Al primo livello di lettura, quello della fiaba, esistono il Male e il Bene, distinti e chiaramente indicati dal simbolismo della luce e del buio, del bianco e del nero. Tolkien ha creato una segnaletica di facile lettura. Essa ci indica da che parte dobbiamo guardare e come dobbiamo comportarci. Tuttavia, egli, uomo del ventesimo secolo, non può che riconoscere l’essenza conflittuale della nostra esistenza, dove gli opposti tendono a mescolarsi anziché separarsi. È per questo che, al secondo livello di lettura, quello del romanzo moderno, i simboli non risultano più così precisi e cominciano a trasparire delle ambivalenze.
A prima vista, la Middle Earth è un mondo fiabesco, idealmente diviso in buoni e cattivi, un’utopia che ci dimostra come sarebbe bello e facile se il bene e il male fossero nettamente distinti e identificabili. A ben guardare però, da questo mondo secondario polarizzato, trapela una realtà che polarizzata non è, e che è quella stessa del nostro mondo primario.
La struttura della fiaba è divenuta per Tolkien un mezzo vivace ed efficace per presentare, drammatizzandola, una complessa ricerca di natura etica e interiore. Il modello della quest diviene lo strumento per mettere in evidenza le caratteristiche dei personaggi.
L’oggetto dell’anti-quest di Frodo si trasforma in amplificatore psichico, l’Anello diventa un campo di attrazione fatale, una tentazione continua che sfibra e mette a dura prova anche i personaggi più positivi.
I mostri, che gli eroi devono combattere lungo il cammino, assumo il carattere di potenti allegorie del male assoluto.
In particolare uno di questi mostri, Gollum, è chiaramente un mostro dell’Id, un’immagine deforme e ripugnante del protagonista Frodo (quasi ritratto di Dorian Gray) capace di mostrargli di che pasta è veramente fatto.
Patrizia Poli
Patrizia Poli