1. Parlare di poeti arabi è come narrare una fiaba. Le storie “aggiunte” nel tempo alle loro vite, tramandate inizialmente in forma orale, poi “fissate” su testi appositamente dedicati ad essi, non permettono affatto di produrre ciò che potrebbe definirsi una biografia. Questo è accaduto perché tali poeti sono stati “trattati”, dalla gente, con un rispetto considerevole; ed è ovvio che, quando c’è di mezzo dell’affetto puro, si costruiscano storie gonfiate. Tuttavia, ciò non è da ritenersi un ostacolo, anzi: se di poesia si vuole parlare, è bene che la ragione lasci spazio (almeno per qualche istante) all’astrazione, e che essa, a sua volta, si abbandoni all’inverosimile. Non saprei ritenere se sia sostenuto da altri quanto affermo, ma fruire della poesia utilizzandola come distrazione dalla vita[1], non è affatto un piacere “piccolo”. Dai poeti arabi di cui qui è scritto qualcosa, la mia idea è concretizzata tra i loro versi.
1.1. Filosofo, matematico, astronomo e astrologo. In queste scienze ’Omar Khayyâm si distinse dagli uomini di cultura del suo tempo. Nacque nella città di Nîshâbûr, nel Khorâsân, una regione nel nord-est dell’Iran. Probabilmente, ereditò dal padre l’appellativo “khayyâm”, parola persiana che significa “fabbricante di tende”. Sulla data di nascita, sugli episodi della sua vita, non ci sono fonti certe. Si pensa che visse nel dodicesimo secolo[2] e che contribuì al ripristino del calendario, fissando con esattezza, insieme ad altri sapienti, la durata dell’anno e del mese concordemente al moto delle stelle.
era un uomo irascibile, sensibile, mai soddisfatto dei suoi risultati, e che fu un insegnate e uno scrittore piuttosto pigro[4]. In realtà, era un uomo che amava parlare poco, conciso nei ragionamenti: e una dimostrazione sono appunto le “Quartine”, che pochi furono in grado di apprezzare, non esclusivamente per la struttura; alcuni mistici lo ritennero un miscredente a causa del carattere provocatorio dei suoi testi e del suo stile di vita. «Sono nati alcuni aneddoti intorno alla fama che lo circondava[5]», e alcuni di questi lo ricordano negativamente, come quello nel quale egli, mentre si accingeva a bere, rompendo accidentalmente la brocca, si trovò costretto ad astenersi dal vino e, adirato, compose una quartina blasfema.
Dunque, tutta legata alle quartine è l’opera poetica di ’Omar Khayyâm. L’edizione italiana, tradotta e curata a Hafez Haidar, ne presenta centonovantadue.
1.2. Rûmî, Gialâl ad-Dîn, nacque in una regione dell’odierno Afghanistan, nel Khorasan, il 30 settembre del 1207. Questo potrebbe farci pensare che egli fosse di razza afghana o pathân; e invece, la lingua con cui il mistico poetò fu l’arabo iraniano. All’età di cinque anni, migrò con tutta la famiglia a Nîshâpûr, città nella quale (secondo la leggenda) avrebbe incontrato il poeta mistico persiano Farîd ad-Dîn ’Attâr, che regalò al piccolo Gialâl ad-Dîn il suo “Libro dei segreti”, predicendogli la carriera di maestro spirituale. Dopo essere stato alla Mecca in pellegrinaggio, e a Malatya, Gialâl ad-Dîn si stanziò a Konya, in Turchia, dove morì nel 1273[6]. Secondo uno degli studiosi più affidabili riguardo approfondimenti su Rûmî, ovvero l’islamista Alessandro Bausani,
«Due eventi spirituali furono determinanti nella vita di Gialâl ad-Dîn[7]».
Il primo, fu l’incontro con un «misterioso personaggio»[8] noto con il nome “Il Sole di Tabrîz”, che divenne suo maestro spirituale; sembra che attraverso questo «personaggio», Rûmî abbia conosciuto i dervisci vaganti[9]. Il secondo, fu la conoscenza, a Damasco, del pensatore mistico Ibn al-’Arabî[10], che dalla Spagna si era spostato in Medio Oriente. Gialâl ad-Dîn saprà fondere, nelle sue poesie, i saperi di entrambi.
L’opera poetica principale di Rûmî è il Dîvân o Canzoniere (dedicato a “Il Sole di Tabrîz”), composta nell’edizione italiana curata da Bausani, sulla quale mi sono basato, da cinquanta componimenti e dodici quartine.
1.3. Le notizie relative la vita di Ḥāfeẓ sono state costruite alla maniera di un mosaico, cioè ricavate da raffronti nelle “tadhkere”, raccolte di biografie e testi di poeti arabi. La mancanza di fonti certe ha permesso la proliferazione di falsi testuali e di letteratura apocrifa, come accadde anche per tanti autori medievali, non necessariamente persiani.
Ḥāfeẓ è il nome “da poeta” di Shams al-Din Moḥammad Shirāzi; l’appellativo attribuitogli, significa “colui che conosce a memoria il Corano”. Nacque tra il 1315 e il 1321 a Shiraz, la capitale del Fars, nella Persia sud-occidentale, città nella quale morì nel 1389 o nel 1390. Compì studi pressoché tradizionali per quel tempo: l’arabo e le scienze coraniche.
«Il dato più significativo riguardante la vita di Ḥāfeẓ[11]»
è il suo rapporto con le corti di Shiraz del XIV secolo. In particolare, questo fu un periodo storicamente molto intenso, che vide la caduta del potere dei Ilkhanidi e l’ascesa di quello dei Timuridi; il poeta seppe mantenere il contatto con i regnati al potere, “lavorando” per essi[12]. Il resto sulla vita di Ḥāfeẓ è, come sostiene Stefano Pellò, una «biografia del suo Divān[13]», ovvero del suo canzoniere. Esso ha ricevuto negli ultimi secoli una notevole attenzione filologica, e, a quanto scrive la critica, molto c’è ancora da scoprire sui componimenti poetici di Ḥāfeẓ. Nell’edizione italiana, curata da Stefano Pellò, sono presenti ottanta poesie, che danno il titolo al testo.
2. Le poesie sono fatte di inchiostro. Ma l’inchiostro non racconta storie. Le storie sono i pensieri e gli affetti degli uomini. L’inchiostro, semplicemente, illustra ciò che l’uomo immagina e sente. Gli studiosi angloamericani di estetica chiamano l’inchiostro medium, cioè il mezzo, il carburante[14] che permette a un pensiero di diventare forma. In realtà, l’inchiostro non è affatto un medium: è molto più simile a uno specchio, che al carburante. Ecco perché. In una pagina in cui è illustrata una poesia, spesso possiamo trovare noi stessi, i nostri pensieri e i nostri affetti, come se ci specchiassimo. Ci ritroviamo in quelle poesie e lo riconosciamo (con la meraviglia?). Tuttavia, siamo in quei versi solo se abbiamo scavato nella nostra immaginazione e nel nostro sentimento: solo se, in qualche occasione, abbiamo formulato domande sull’esistenza. Le domande non sono che frammenti spezzati dalla verità. Quando (leggendo) i nostri frammenti si fondono con i frammenti del poeta, essi interagiscono tra loro come in un incastro, come se in quei versi i nostri pensieri e i nostri affetti si specchiassero. ’Omar Khayyâm, Rûmî e Ḥāfeẓ ci illustrano un particolare frammento di noi stessi: l’inquietudine.
Iniziamo con ’Omar Khayyâm. Riguardo alla prima inquietudine umana, cioè al suo essere al mondo, che con un immagine sprezzante chiama “diroccato convento”, scrive oscillando tra l’essere e il non essere, preferendo quest’ultimo, che:
Se fosse dipeso da me il mio venire, non venivo
E se da me dipendesse l’andarmene, quando mai me ne andrei?
Era meglio se in questo diroccato convento
Non fossi venuto, né andato, né stato giammai[15].
Mentre più avanti, in un’altra quartina, continua con il suo pessimismo, quasi identificando l’esistenza al male più grande, agli affanni, e all’assenza di significati:
All’inizio ci portò all’esistenza:
Ma eccetto che affanni dalla vita niente altro fu offerto.
Partimmo restii e senza sapere qual era
Lo scopo di questo venire, essere e andare[16].
Passiamo ora a Rûmî. Il poeta “danzante” fa dell’inquietudine il principio dell’ebbrezza e dell’unione mistica, alla quale si giunge solamente dopo aver riconosciuto le opposizioni contrastanti dell’anima, senza poter trovare, però, il punto di stabilità:
Limite alcuno non ha questo nostro deserto,
pace alcuna non ha questo cuore mio, quest’anima.
Universi su universi ha preso immagine e forma:
quale dunque di queste immagini è l’immagine nostra[17]?
Quale? Ecco la soluzione, che coincide con un’immagine tragica, l’unica in grado di svelare, con il suo silenzio, ovvero con le parole del mistero, la verità:
Se tu vedrai per la strada una testa mozzata
che verso la nostra piazza sta rotolando,
chiedile, chiedile, i segreti del cuore
e ti dirà il nostro mistero nascosto[18].
In Ḥāfeẓ, infine, l’inquietudine è una pioggia su un volto pieno di rughe, il cui scorrere e disperdersi delle singole gocce fanno da avvertimento: rassegnazione. In questo temporale di sofferenza c’è ancora speranza:
Oh, che in santo volo egli a questa mia soglia ritorni,
e a me che son vecchio la vita trascorsa ritorni.
In queste mie lacrime simili a pioggia confido, che ancora
il lampo perduto di sorte propizia al mio sguardo ritorni[19].
Ma la speranza, purtroppo, si infrange tra il debole vento che soffia sulle rose, nel passaggio dalla notte al risveglio, con i primi versi del giorno:
Se non la dilapido ai piedi di quell’amico prezioso,
a qual altro utile vuoi che la perla di questa mia vita ritorni?
È il brusio del roseto, è il dolcissimo sonno dell’alba
a far sì che ai miei lai mattutini egli no, non ritorni[20].
Un singolo desiderio attraversa le anime dei tre poeti: l’unione mistica. Mediante tre immagini diverse essa avviene. Con un sentimento comune si avvera: l’amore. Poi con la rabbia, con la danza, con il vino… con ’Omar Khayyâm, con Rûmî, con Ḥāfeẓ. Con la poesia e il sufismo. Con i canti intonati dall’inquietudine, per colorare la vita silente, che spaura[21].
3. Notiamo, nella storia, di come ogni tentativo volto alla ricerca della radice dell’esistenza si sia (matematicamente) risolto in un insuccesso. Inizialmente -pensiamo a volte-, quell’idea che pareva illuminare verità nascoste dalla notte è diventata subito una debole candela consumata, che fronteggia invano la chiarezza di un’alba la quale, senza nessun rispetto della nostra sensibilità, avanza lentamente, illuminando gli errori commessi, accecandoci. Oltre alla tortura della coscienza, si aggiunge l’incertezza di una successiva notte, in cui nuovamente tutto si confonde. Lo ammetto: che la poesia e il sufismo (e la critica come conferma di entrambe) siano una “soluzione” è soltanto una trovata estetica, o meglio, teatrale; e, peggio, senza alcun fondamento. Se mai fondamento avranno, sarà l’intimità di ognuno a postularlo, e non come proposizione facilmente contemplabile, ma in forma di guizzo della nostra mente, cinguettio che arriva e, senza lasciare traccia oltre al suo invisibile profumo, va via. Sappiamo, però, che in tale notte misteriosa le verità ci sono, anche se nascoste; e che c’è anche un modo per chiamarle: attraverso la poesia e il sufismo, attraverso le rime e le preghiere, attraverso -in una sola parola- i canti[22] che uomini illustri hanno ricamato. Con i canti, infatti, i poeti-sufi hanno annullato la vita silente, riempiendola di parole.
Dario Orphée
[1] Si può avere distrazione dalla vita solo quando la fruizione è un lavoro attento. Lo sostiene anche Walter Benjamin.
[2] Gli studiosi fissano la data della morte del poeta nel 1130.
[3] ’Omar Khayyâm, Quartine, introduzione di Mohammad ’Alî Forughî, traduzione e cura di Hafez Haidar, Bur.
[4] Questo, secondo alcuni, sarebbe causa della sua modesta produzione letteraria, ma ciò non è affatto convalidato.
[5] ’Omar Khayyâm, Quartine, cit. Pag. 13.
[6] Il motivo per il quale fu costretto a lasciare la patria è legato alla rivalità tra suo padre e il califfo di Baghdad.
[7] Rûmî, Poesie Mistiche, a cura di Alessandro Bausani, Bur. Pag. 6.
[8] Rûmî, Poesie Mistiche, cit. Pag. 6.
[9] Essi, oggi presenti nella loro forma folkloristica, più che religiosa, possiedono delle somiglianze con gli jurodivyj russi, una forma di ascetismo praticata dagli appartenenti alla Chiesa ortodossa.
[10] Teorizzatore della wahdat al-wujûd, cioè l’“unità dell’essere”.
[11] Ḥāfeẓ, Ottanta canzoni, a cura di Stefano Pellò, Einaudi. Pag. VII.
[12] In breve, fu un poeta “di professione”.
[13] Ḥāfeẓ, Ottanta canzoni, cit. Pag. VIII.
[14] Cfr. J. Dewey, Arte come esperienza.
[15] ’Omar Khayyâm, cit., pag.33.
[16] ’Omar Khayyâm, cit., pag. 36.
[17] Rûmî, cit., pag. 71.
[18] Rûmî, cit., pag. 71.
[19] Ḥāfeẓ, cit., pag. 85.
[20] Ḥāfeẓ, cit., pag. 85.
[21] È con la paura, spesso, che nascono i pensieri. Cfr. G. Leopardi, L’infinito, ai versi 4-8.
[22] E la coscienza di essi, fornita dalla critica.
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