Il Castello (Das Schloß)
di Franz Kafka
Tascabili Einaudi, 2007
con introduzione e traduzione di Paola Capriolo
pp.
XX - 352
1^ edizione originale: 1926
Era sera tardi quando K. arrivò. Il villaggio era sommerso dalla neve. Non si vedeva nulla della collina del Castello, avvolta com’era dalla nebbia e dall’oscurità, non un barlume di luce che indicasse il grande Castello. K. rimase a lungo sul ponte di legno che conduce dallo stradone al villaggio, a guardare il vuoto apparente.
Premetto che le righe seguenti saranno senza dubbio lacunose e incomplete. Aver letto un’opera di Kafka e pensare di poterne comprendere a fondo il significato sarebbe come restare senza fiato di fronte al cielo stellato e presumere di saper recitare tutta la dottrina di Kant. Per avere un quadro ragionato, meditato e sicuro dell’autore praghese servirebbero anni di studio di ebraismo e teologia e una profonda conoscenza della letteratura dell’Est Europa. Sarebbe forse l’unico modo per non perdersi nelle sue labirintiche pagine; ho usato, come temporaneo filo rosso, l’introduzione al volume di Sergio Quinzio.
K., di professione agrimensore, viene convocato dal conte Westwest per esercitare nel suo Castello, struttura che domina su un villaggio immerso in un lungo e monotono inverno. Non appena K. mette piede nella locanda all’ingresso del paese, ogni via razionale si perde: le inestricabili maglie della burocrazia ostacolano K., i Signori che le gestiscono sono evanescenti e inarrivabili, gli stessi abitanti, a volte misteriosi a volte bizzarri, lo intralciano e lo confondono. Il Castello rimane di sfondo, presunto punto di arrivo di K., ma in realtà sempre più distante e inaccessibile.
L’opera è incompleta e più che “romanzo” forse la si può definire “raccolta di frammenti”. Come si evince, il Castello è il vero fulcro. È un inno di amore/ odio per Praga il cui ghetto è il calco per la costruzione fisica del Castello
Nel complesso il Castello, a vederlo così, da lontano, corrispondeva a quel che K. si aspettava. Non era un antico maniero cavalleresco né un palazzo nuovo e sfarzoso, bensì un complesso esteso, formato da poche costruzioni a due piani e da tante più basse e addossate strette l’una all’altra. (…) Però nell’avvicinarsi il Castello lo deluse; era proprio una misera cittadina soltanto, un agglomerato di case da villaggio che si distinguevano forse solo perché tutto era costruito in pietra; però l’intonaco era caduto da un pezzo e la pietra sembrava sgretolarsi.
Il titolo originale “Das Schloß” può inoltre essere tradotto come “serratura”: se ne ricava immediatamente un senso di soffocamento, traslitterazione letteraria della tubercolosi che afflisse l’autore e che lo portò alla morte.
Questo è il fondale opprimente su cui agiscono i personaggi; uso il verbo “agire”, ma sarebbe più indicato “illuminarsi”. Nel leggere si ha l’impressione che queste figure si accendano solo quando viene pigiato un interruttore dal pannello centrale e che si spengano nel momento in cui il nostro occhio non è più su di loro.
K. è nettamente al di fuori di questo balletto luminoso ed è la rappresentazione dell’ebreo errante che, al cospetto del volere di Dio, può solo peregrinare senza di fatto trovare il suo posto nel mondo. Nei quattro giorni di narrazione, una Genesi abortita, si ha l’idea che percorra strade infinite per poi ritornare al punto di partenza, senza nemmeno lasciare tracce nella neve che copre il villaggio durante il lungo e ovattato inverno.
Non sapessi che Kafka è praghese avrei pensato che l’ambientazione fosse uno dei tanti paesi della pianura Padana, almeno da novembre in poi.
Giulia Pretta