§1.
Addentrarsi «nel territorio del diavolo»
Alla base di The Violent Bear It Away (Il cielo è dei violenti, Einaudi 2009) giace una potente geometria di forze. Le
storie di Flannery O’Connor sembrano presupporre, per potersi concretizzare
sulla pagina, l’assetto di una campana da vuoto e la creazione, in quella, di
un mondo-dentro-il-mondo in cui umano e divino seguono leggi primitive. La
fucina creativa dell’autrice georgiana non può spiegarsi senza questa
sistematica operazione preliminare, che agisce nella fibra invisibile dell’individuo
sclerotizzandone la natura: il primo atto di violenza non è nel cielo o in
colui che al cielo aspira, ma nella mano che cattura entrambi, uomo e cielo, nella
parola scritta.
Flannery O’Connor era una narratrice colta
e smaliziata. Sapeva di certo che per il cattolico la creazione narrativa non
può che rappresentare un corto circuito, perché il narratore («comme Dieu dans la création», più o meno «invisible»
ma sempre «tout-puissant»[1])
non è dio misericordioso ma tiranno: il libero arbitrio è menzogna nella
menzogna; il mondo della fiction
porta su di sé un ineliminabile marchio di predestinazione.
Non occorre speculare per rintracciare
la radice della vocazione letteraria di Flannery O’Connor. È lei stessa a delineare il proprio lettore ideale:
una
generation of wingless chickens, which I suppose is what Nietzsche meant when he said God was dead. [2]
La folla dei «polli
senz’ali» (metafora significativamente attinta dal quotidiano: l’autrice
allevava polli e pavoni, e li amava molto) non va convertita a tutti i costi: se
così fosse stato, Flannery non sarebbe stata tanto diversa dai suoi freaks, tutti profeti, anti-profeti e
predicatori. Flannery O’Connor esige di più da sé e dai suoi lettori. Aborre egualmente
tutte le forme di passività, atee e religiose, e non vuole creare credenti
istupiditi ma pungolare le intelligenze. Ne risulta un’esperienza disturbante
per tutti i lettori, credenti e non. La narratrice – diventata mefistofelico croupier nel momento in cui, scegliendo
di scrivere, si è addentrata «nel territorio del diavolo»[3] – ha
scelto il tavolo da gioco più pericoloso. Ogni volto è una carta che irride
alla quieta norma, alle certezze e agli schemi probabilistici. Sul tappeto
della sfida, sempre, l’insondabile mistero della grazia.
§2.
Uomini «intossicati da Dio»
The
Violent Bear It Away è
il secondo romanzo della scrittrice georgiana[4].
Il primo capitolo era apparso nel 1950 sul New
World Writing col titolo You can’t be
any poorer than dead; nel frattempo erano stati pubblicati il suo romanzo
d’esordio, Wise Blood (1952), e una
raccolta di racconti, A Good Man Is Hard
To Find and Other Stories (1955). Il romanzo ricevette, come il suo
predecessore, giudizi eterogenei, spesso viziati da inappropriati riferimenti
biografici. Una recensione sul Time intitolata
God-Intoxicated Hillbillies («montanari
intossicati da Dio») descrisse «author O’Connor» come una «retiring, bookish
spinster» [7]. Una
valutazione al limite della calunnia; ciononostante, il titolo mostra come
anche la lettura più imbevuta di pregiudizi colga una cifra indispensabile
della prosa di Flannery O’Connor: l’«intossicazione da Dio». Non potrebbe
essere altrimenti. Il tratto ritorna in molti contributi con la fortunata etichetta
«Christ-haunted» (o «God-haunted») coniata dalla stessa autrice [6]: sono
infestati da Cristo i protagonisti dei romanzi della O’Connor; è tormentato da
Cristo l’intero Sud e gran parte della Southern
fiction. L’etichetta, si è detto, ha avuto grande fortuna presso i critici [7] fino alla partizione tra autori «God-haunted» e «Man-haunted» [8], contestabile
perché parlare di Dio significa parlare dell’uomo che lo rappresenta.
La narrativa riguarda tutto ciò che è umano e noi siamo fatti di polvere, dunque se disdegnate d'impolverarvi non dovreste tentare di scrivere narrativa, [9]
avverte Flannery O’Connor: ma il mondo con cui occorre sporcarsi le mani è lo
stesso che Dio ha modellato, e in cui ha scelto di farsi carne e polvere.
L’«intossicazione da Dio» è la
reazione che innesca la macchina narrativa o’connoriana. Per attingere alla
radice dell’umano, la scrittrice usa violenza sulla propria rappresentazione
del divino. Il Dio di Flannery O’Connor si scompone e deforma sulla pagina scritta.
Ognuno dei suoi personaggi vive un suo personalissimo conflitto col divino e
subisce o si autoimpone un diverso tormento. A partire dal suo primo romanzo, Wise Blood, in cui Hazel Motes vede in Gesù una forza selvatica, che
attrae e repelle, pronta a rintanarsi nel suo subconscio [10], ed
Enoch, «moron» [11] comico e animalesco, vive la fede come fatto fisico (urgenza nel sangue), e
identifica il suo «nuovo Gesù» in una mummia da museo.
Hazel Motes (Brad Dourif) nell'adattamento cinematografico di Wise Blood (1979)
Lo stesso accade in The Violent
Bear It Away. La
deformazione caricaturale che conferiva agli attori dell’esordio movenze
sincopate, grottesche e prevalentemente bestiali si riduce a poche,
scarnificate immagini. L’aria circense di Wise
Blood non è ammessa nel «cielo dei violenti», i cui personaggi sono ancora «intossicati
da Dio» (e in modo altrettanto patologico) ma sembrano fare un salto verso un
doppio statuto, nel quale ogni personaggio è definito in modo totalizzante dal
suo rapporto con Dio. Ognuno di loro è la specifica incarnazione di uno slancio
dello spirito.
Come e più che in Wise Blood sono le scelte onomastiche a definire tale specificità,
che spesso si realizza per opposizione elementare. I due Tarwater, prozio e
pronipote, condividono un cognome che significa letteralmente «acqua catramata».
Si tratta di un tratto importante in un romanzo il cui vero protagonista è il
sacramento (e soprattutto il battesimo per acqua e per fuoco): il family name dell’uomo «intossicato da
Dio» esprime l’inquinamento dell’elemento vitale per eccellenza.
Riservano sorprese ancora più
indicative i due nomi. Il vecchio prozio, Mason, è «colui che lavora la pietra»:
una figura chiaramente veterotestamentaria, per cui Dio è tavola della legge e
la fede roccia incorruttibile. La sua chiamata non è frutto di una dialettica
sofferta ma di un’investitura: il suo compito in qualità di suo profeta è di
go warn the children of God … of the terrible speed of justice.
Anche
narratologicamente la sua figura è pietra che ostacola. Alla sua prima
apparizione Mason Tarwater è già cadavere: tutto il primo capitolo del romanzo
è centrato sul faticoso seppellimento del morto, da far rotolare sulle scale
fin dentro la bara che lui stesso si è costruito e da cui sporge. Il rapporto
con la morte è un vero corpo a corpo, e sul rituale sacro della sepoltura si
innestano, doppiamente, allucinazione (il demonio cerca di distogliere il
giovane Tarwater dallo svolgimento delle esequie) e device narratologico (la serie di flashback che presenta gli attanti). L’uomo-pietra, morto e
sepolto, diventa spettro della chiamata (del fallimento della chiamata) e
figura del Dio che infesta: caccia che coinvolge egualmente il giovane Tarwater
e Rayber, lo «schoolteacher» che prende in custodia il ragazzo. La chiamata,
pietra dello scandalo, era grumo di catrame; con la morte – corto circuito
necessario – il grumo si è sciolto nell’acqua che è il sangue oscuramente «saggio»
dei protagonisti, generando una lotta in Tarwater e risvegliando la lotta
quiescente in Rayber.
Mason rappresenta anche un
cristianesimo radicale ed eremitico. Tutti i contatti con la città (suoi e di
Tarwater, almeno finché quest’ultimo è «tormentato» dalla sua ombra e
dall’urgenza di fuggirne) si risolvono in trauma e ritorno alla tenuta di
Powderhead, l’eden «di polvere» (immagine di sapore qoeletico) protetto da
campi di granturco.
In The Violent Bear
It Away la campagna è il luogo dello spirituale: in campagna si manifestano
le direttive della grazia divina, in campagna si realizzano. A Powderhead si
svolge l’educazione religiosa di Rayber e Tarwater (per il primo stroncata
sul nascere); in un ambiente rurale – lacustre, nello specifico – Tarwater
compie il battesimo-omicidio del piccolo Bishop; sulla via per Powderhead,
infine, viene violentato da un anonimo autista. La città, al contrario, appare
inizialmente il luogo delle ricerche frustrate, ambiente di falsi profeti e dei
«figli di Dio» che proprio il profeta dovrebbe educare. Mason, tuttavia, non ha
con la città che contatti puntiformi: con l’avvocato, il mondo grigio ed
estraneo della burocrazia; e prima ancora con Rayber, in una breve parentesi di
convivenza sfociata nella più esacerbante scoperta: il nipote, il primo su cui
il profeta aveva riposto le sue speranze di educatore, aveva fatto di lui
oggetto di studio per una pubblicazione scientifica. Questa è la città per
Mason e per Tarwater; ma per quest’ultimo, l’ambiente urbano è destinato ad assumere
un nuovo significato.
Francis Marion Tarwater occupa un posto
speciale. Il suo è il punto di vista privilegiato e mobile: ci troviamo di
fronte a un personaggio in movimento, fisico ancorché spirituale, in
oscillazione tra i due poli (città e campagna) ma anche tra due modelli
possibili (il prozio Mason e lo zio Rayber). Il rapporto con questi ultimi,
insieme ad alcuni incontri – il dialogo col diavolo e lo stupro subito sulla
via di Powderhead, ma anche Meeks, il «traveling copper flue salesman» che
considera le disgrazie dei clienti un ottimo canale di fidelizzazione – è
paradigmatico: tutti pretendono qualcosa dal ragazzo, tutti vogliono plagiarlo,
annullarne il libero arbitrio. Violenza intellettuale, spirituale, fisica.
Anche Dio, con lo spettro della chiamata, vuole qualcosa da Tarwater. La
reazione – di per sé giustificabile in un quattordicenne e per di più, in
ottemperanza alla legge narrativa di Flannery O’Connor, esasperata dalla «God-intoxication»
– è quella del rifiuto.
La morte di Mason coincide con la fine dell’infanzia,
l’inizio della lotta per l’affermazione: e questo rende Tarwater selvatico e
violento quanto coloro che cercano di addomesticarlo. Il romanzo segue un
percorso tragicamente draconiano: alla violenza si risponde sempre con la
violenza fino alla catastrofe nell’acqua (il battesimo-omicidio di Bishop) e nel
fuoco (lo stupro). Sono le due forme di violenza più alte: quelle oltre le
quali non c’è redenzione e nelle quali, paradossalmente, si dimostra la fattiva
accettazione della grazia e del mandato profetico. Il circolo della «violenza»
umanamente intesa, infatti, giunto al suo apice esplode come una bolla,
lasciando il posto a una trasfigurata misericordia.
È questa la fondamentale
novità di Tarwater rispetto al prozio: se il primo appartiene alla
costellazione veterotestamentaria e, per alcuni tratti fondamentali, del
cristianesimo primitivo, Tarwater incarna il cristianesimo moderno, che ha
riconosciuto il paradosso della fede (l’abisso, lo scandalo, il perdono). Ancora
onomastica: Francis Marion Tarwater porta un nome chiaramente neotestamentario,
che fa diretto riferimento alla Vergine ma anche a quel santo, Francesco, che
ha rivoluzionato la predicazione, il rapporto con la natura e con la città. Dopo lo stupro a Powderhead Tarwater si risveglia
nudo, spogliato dell’unico bene capace di definirlo (il cappello) ma anche
trasformato:
His eyes looked small and seedlike as if while he was asleep, they had been lifted out, scorched, and dropped back into his head [12].
Il battesimo
nel fuoco è avvenuto. Come Mason, gli occhi di Tarwater sono stati bruciati;
per loro si sono aperte le porte della rivelazione. Ma il risultato di Tarwater
è tanto diverso da quello del prozio, perché la rivelazione si è realizzata a
prezzo scandaloso, paradossale (tutti gli aggettivi della cristianità moderna).
L’obiettivo del nuovo profeta non è il ritiro eremitico, non l’educazione di un
futuro profeta, non l’annuncio dell’appressamento del giudizio: la città, non
l’arsa Powderhead, è il suo nuovo obiettivo; lì dovrà
go warn the children of the terrible speed of mercy [13].
La natura del divino resta una potenza elementare e terribile, ma Dio da
supremo giudice (veterotestamentario, scatologico) è diventato Padre, veicolo
di (neotestamentaria) misericordia. Questa la profonda novità di Tarwater: il
suo conflitto con Dio si risolve nella visione di un roveto in fiamme, che
risveglia in lui «la saggezza nel sangue» e ritrova il senso della fame di Dio.
Simile conflitto ma diversa soluzione
per Rayber, terzo vertice di quel triangolo di attanti che corrisponde
perfettamente alla struttura tripartita del romanzo. Le radici della «God-intoxication»
in lui sono celate. Misconosciute, perché l’unico comando, o mandato che dir si
voglia, Rayber l’ha ricevuto direttamente da sé stesso a costo di una lenta,
sofferta (e vacillante, accanto a Tarwater) rieducazione. Sulla base del
proprio «self-taught secularism» [14],
si sforza di rinunciare alla saggezza del proprio sangue per un altro tipo di
saggezza, di tipo precipuamente razionale. Tuttavia, c’è una frontiera in cui
questa razionalità si esaurisce, in cui Rayber realizza (consapevolmente) una
forma di amore puro, violento e insopprimibile: suo figlio Bishop.
§3.
La parola come skandalon
In un intelligente saggio del 2007,
l’anglicista Gary M. Ciuba propone di analizzare The Violent Bear It Away come uno schema di opposizioni tra i
personaggi, ognuna delle quali è rappresentata da una biblica «stumbling rock»,
una pietra dello scandalo, con un processo «from scandal to skandalon» [15].
L’approccio è intelligente, ma è bene invertire il segno della reazione: lo
scandalo nasce dalla pietra, non viceversa [16]. Nelle Scritture, il termine originario per "scandalo" era mishkol
(pietra: unità di misura per una terra in cui la roccia domina il paesaggio).
Isaia – non a caso, un profeta come Mason – conia per primo la metafora del sasso in cui
si inciampa: che nella traduzione greca diventerà skandalon (legata come il latino scandalum alla radice skand,
compiere un salto). Dal letterale al metaforico: l’inciampo si trasforma in
prova, la «pietra dello scandalo» assume il doppio valore di ente fisico o
spirituale che costringe a innalzarsi o, al contrario, a cadere.
Bishop è la pietra dello scandalo
perché incarna in modo quasi offensivo il paradosso della grazia. Porta un nome
che rimanda alla gerarchia ecclesiastica, ma è un «dim-witted». Nei suoi occhi
brillano come dei pesci, una luce lacustre che rispecchia il suo orribile ma
necessario destino. La sua morte è la chiave per la risoluzione dei conflitti.
Anche Rayber, dopo la morte del figlio, troverà un attonito equilibrio,
svuotato di passioni.
Ragionando di scandali e pietre,
abbiamo toccato il terreno della filologia e della traduzione delle Scritture.
Non a caso: il titolo di The Violent Bear
It Away cita uno tra i passi più discussi dei Vangeli, le cui traduzioni
riportano infinite declinazioni di un possibile e inspiegato rapporto tra la
violenza e il regno dei cieli. Con il suo romanzo, Flannery O’Connor ha offerto
una sua interpretazione: occorre fare violenza allo skandalon, alla pietra che giace insoluta nelle viscere dell’uomo,
per aspirare a una vera rivelazione della natura del divino e, soprattutto, per
realizzare la propria umanità. La conferma a questa interpretazione ci viene
ancora da una scoperta filologica [17].
Su una copia del Personalism di Mounier
conservata nella sua biblioteca, c’è un passo evidenziato con una linea
verticale:
Una persona raggiunge l’autocoscienza non per una qualche forma di estasi, ma grazie alla forza di un combattimento mortale; e la forza è uno dei suoi principali attributi. Non la forza bruta del semplice potere o dell’aggressività (…) ma la forza umana, che è allo stesso tempo interiore ed efficace, spirituale e manifesta. (…) Una persona giunge davvero alla completa maturità quando s’impossessano di lei ideali che considera più preziosi della vita stessa. Ma nelle moderne condizioni di agiatezza e indulgente considerazione delle emozioni, abbiamo a lungo coltivato, nascondendoci dietro filosofie di pace e amore, la più mostruosa incomprensione di queste verità elementari. [18]
A margine di questo passo, Flannery O'Connor annotò il titolo del suo futuro romanzo:
«the violent bear it away».
[1] Dalla celebre similitudine di
G. Flaubert nella Lettera
a Mademoiselle Leroyer de Chantepie, in id., Correspondance 1851-1858, Bibliothèque de la Plèiade, Gallimard, Paris 1980, vol. II, p. 691.
[2] F. O’Connor, The Habit of Being:
Letters of Flannery O’Connor, a c. di S. Fitzgerald, Farrar, Straus &
Giroux, 1969, p. 90.
[3] F. O’Connor, Nel territorio del diavolo. Sul mistero di
scrivere, Minimum Fax, 2010, pp. 164.
[4] Id., The Violent Bear It
Away, Farrar, Straus & Cudahy, (1960) 2007, pp. 256.
[5] «una schiva zitella, un topo
di biblioteca», God-Intoxicated
Hillbillies, Time, 26 febbraio
1960.
[6] «But approaching the subject from the standpoint of the writer, I think it is safe to say that while the South is hardly
Christ-centered, it is most certainly Christ-haunted», F. O’Connor, Some Aspects of the Grotesque in Southern Fiction, in id., Mystery and Manners: Occasional Prose, a
c. di S. e R. Fitzgerald, Farrar, Straus & Giroux, 1969, p. 44.
[7] Una
spigolatura relativa ai soli titoli di contributi: S. Ketchin, The Christ-haunted
landscape: faith and doubt in southern fiction, University Press of Mississippi, 1994, pp. 432; G. Kilcourse, O'Connor and Merton: Icons of the True Self in a 'Christ-Haunted' World,
in The Flannery O'Connor Bulletin, n. 23, 1994-95, pp. 119-136; R.C.
Wood, Flannery O'Connor and the
Christ-Haunted South, Wm. B.
Eerdmans Publishing Company, 2005, pp. 272.
[8] M. Mongomery, Southern
Letters in the Twentieth Century: The Articulation of a Tradition, in Modern Age, vol. 24, n. 2, 1980, pp.
121-133. «Man-haunted»
secondo la Mongomery, per esempio, sarebbe Gustave Flaubert.
[9] F. O’Connor, Nel territorio del diavolo…, op. cit.,
p. 45.
[10] «C’era già in lui il profondo
nero inespresso convincimento che il mezzo per evitare Gesù consistesse
nell’evitare il peccato. A dodici anni sapeva che avrebbe fatto il predicatore.
In seguito vide Gesù spostarsi d’albero in albero in fondo alla sua mente, una
figura selvaggia cenciosa che gli faceva cenno di volgersi indietro e
d’inoltrarsi nel buio dove avrebbe rischiato di mettere un piede in fallo, dove
poteva star camminando sull’acqua a sua insaputa e poi accorgersene tutt’ad un
tratto e annegare», F. O’Connor, La
saggezza nel sangue, trad. M. Bonsanti, Garzanti 2010, pp. 22-23.
[11] F. O’Connor, On
Her Work, in id., Mystery and Manners,
op. cit., p. 116-117.
[12] F. O’Connor, The Violent Bear It
Away, op. cit., p. 232.
[13] Ivi, p. 242.
[14] C. A. Kirk, Critical companion to
Flannery O’Connor, Facts on File, 2007, p. 141.
[15] G. M. Ciuba, «Like a boulder
blocking your path»: Scandal and Skandalon in Flannery O’Connor, in id., Desire, violence and divinity in modern
southern fiction: Katherine Anne Porter, Flannery O’Connor, Cormac McCarthy,
Walker Percy, Louisiana State University Press, 2007, pp. 115-164.
[16] Cfr. R. Ceserani, Petra scandali, in AA. VV., Scandalo. Quaderni di Synapsis VIII. Atti
della Scuola Europea di Studi Comparati, a c. di R. Carbotti, Edumond Le Monnier, 2009, pp. 31-45.
[17] V. Wray, An Authorial Clue to the
Significance of the Title “The Violent Bear It Away”, in The Flannery O’Connor Bulletin, Georgia
and State University, 1977, pp. 107-108.
[18] E. Mounier, Personalism, Routledge & Paul, 1952,
p. 49-50; trad. inglese di id., Le personallisme, Paris, Editions du Seuil, 1949,
pp. 136; trad. it.: Il personalismo, a
c. di G. Campanini e M. Pesenti, Roma, AVE, 2004 (1989), p. 192.
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