Cosa sognano i pesci rossi
pp. 245
La storia segue le vicissitudini di questi due personaggi,
anzi, proprio da loro è narrata con perfetta simmetria. L’autore, infatti, affida loro i capitoli del libro, che si alternano presentando il punto di vista del paziente e quello del medico procedendo di pari passo.
di Marco Venturino
Mondadori, 2005
pp. 245
Pierluigi Tunesi,
quarantacinquenne amministratore delegato di un’importante multinazionale, uomo
di successo dalla vita densa di riunioni aziendali, cene eleganti, concerti e
sciate a Crans Montana, si trova all’improvviso prigioniero in un reparto di
Terapia Intensiva, confinato in un letto e incapace di qualsiasi movimento in
seguito a un difficile quanto azzardato intervento chirurgico andato male.
Luca Gaboardi, quarantacinquenne medico
anestesista rianimatore, è a capo dell’équipe sanitaria che opera nel reparto
di Terapia Intensiva in cui Tunesi è ricoverato. Gaboardi è un uomo reso cinico
e disilluso dalle insoddisfazioni provate sia in ambito professionale sia nella
vita privata; è lui stesso a dirci che, terminato il servizio e tornato a casa,
è solito finire la giornata stordendosi con l’alcol, evitando in questo modo di
addentrarsi in pericolose riflessioni sul senso della propria esistenza.
La storia segue le vicissitudini di questi due personaggi,
anzi, proprio da loro è narrata con perfetta simmetria. L’autore, infatti, affida loro i capitoli del libro, che si alternano presentando il punto di vista del paziente e quello del medico procedendo di pari passo.
Addentrandoci nel racconto
scopriamo i due uomini, personaggi principali della vicenda, che allo stesso
momento della vita si incrociano provenendo da due percorsi profondamente diversi.
Tunesi, il paziente, si ritrova in uno stato di non autosufficienza pressoché completa, collegato a un
respiratore artificiale e invaso da cateteri e sondini per la nutrizione e le
funzioni vitali; incapace di parlare e di muoversi è costretto a sopportare la
dipendenza dal personale del reparto che, dovendolo accudire in ogni necessità
e funzione, inevitabilmente varca qualsiasi soglia di pudore e riservatezza,
provocando fastidio misto a incredulità in colui che fino a poco tempo prima
vestiva i panni del dirigente di successo, abituato a organizzare e a disporre.
I problemi fisici di Tunesi,
tuttavia, non hanno assolutamente offuscato le sue capacità cognitive; al
contrario, la forzata inattività lo induce a profonde riflessioni sulla sua
condizione esistenziale. L’uomo si rende perfettamente conto del percorso a
monte del suo stato attuale: affidatosi a un chirurgo di successo, che senza
troppi scrupoli gli propone di intervenire per estirpare il cancro in fase
pericolosamente avanzata che gli era stato appena diagnosticato, viene
abbandonato dallo stesso chirurgo dopo che l’operazione si rivela per ciò che
era effettivamente, ossia un azzardo, un tentativo disperato non dettato
dall’attenzione al paziente ma dall’interesse a risolvere un caso clinico da
esibire nei convegni medici e nei talk show in cui il chirurgo è spesso ospite
quale esperto scientifico.
Gaboardi, il medico, è un uomo
stanco e disilluso, insoddisfatto della sua condizione ma non abbastanza
determinato a cercare il cambiamento. Scarsa ambizione e – forse più di ogni
altra cosa – timore dei fallimenti gli impediscono di impegnarsi per un miglioramento
della carriera.
Insoddisfatto sul lavoro quanto
nella vita privata, Gaboardi è solo, dopo essere stato causa della fine del
proprio matrimonio: “scoperto come un liceale a levarmi i pantaloni per una
collega di cui ricordo tutto tranne che il nome”, racconta nel descriversi.
Nonostante una relazione pressoché occasionale con una collega, questa
solitudine pesa su Gaboardi come un macigno. Di fronte alla morte di un amico,
nella necessità di riflettere sul senso della propria vita, è questo aspetto
che la sua mente va a indagare:
Anch’io, come tanti, sono stato amato. Ma cosa ho fatto di quest’amore? Come ho coltivato questo giardino? L’ho lasciato avvizzire, ho permesso ai germogli di morire. Perché, soprattutto, non ho voluto crederci. Ho preferito ripiegarmi sulla mia stanchezza, sul mio disincanto, sulla mia incredulità. E mi ritrovo solo: senza una moglie, senza figli, senza nemmeno una Silvana che versa lacrime senza pudore per una felicità forse effimera ma irrimediabilmente perduta.
Ecco, questo forse è il punto più
profondo, più angosciante del libro. Il protagonista “vivo”, ossia quello che
non è inchiodato a un letto, che non deve essere imboccato, pulito e lavato,
che disponendo del proprio corpo potrebbe fare qualsiasi cosa, non riesce a
essere in pace poiché su di lui pesa il passato, con il suo carico di ricordi e di timori insensati e velenosi.
Leggendo queste pagine affiora lievemente, come velato da uno strato di foschia, il ricordo di George Gray, quel personaggio della “Spoon River
Anthology”, che vede la sua vita come una barca con le vele ammainate in un
porto, una barca “che anela al mare eppure lo teme”. Come lui, anche il nostro Gaboardi
è il risultato di scelte non fatte e opportunità non colte, roso dai rimorsi e
ormai prossimo a uno stadio della vita in cui, di norma, se ne analizzano i
risultati.
Intorno a questi due personaggi –
il paziente e il medico – ruota il “mondo piccolo” del reparto ospedaliero, con
gli altri degenti, osservati come pesci rossi in un acquario dal personale (le
“facce verdi”), i primari pieni di sé e gli assistenti servili ("camici bianchi
che pur odiandosi peggio degli hutu e dei tutsi non si denigrerebbero mai
apertamente l’un l’altro"), gli infermieri, i parenti dei ricoverati. Tra Tunesi
e Gaboardi si instaura un rapporto particolare: il primo si rende conto che
qualcosa non va nel medico, così sfuggente e caustico, eppure lui stesso
riconosce che Gaboardi è in realtà uno dei pochi che lavora onestamente,
approcciandosi ai pazienti in modo sincero e senza ipocrisie. Nel momento in
cui la vicenda scivola verso il finale tragicamente prevedibile, Gaboardi torna
a essere il medico attivo e scrupoloso per cui la vita del paziente costituisce
un bene primario, nonostante si renda conto perfettamente che in quel reparto
particolare le possibilità di incidere in modo drammatico sul corso degli
eventi sono rare, e che, forse per un’inconscia dinamica autodifensiva, i
pazienti tendono a essere considerati poco più che numeri.
Un romanzo dalla tematica non
certo facile ma molto bello, in cui gli eventi sono narrati in modo realistico
e senza il timore di sporcarsi per il contatto ravvicinato e continuo con corpi
e liquidi, scritto con perfetta cognizione di causa da un medico rianimatore
alla sua prima, felice esperienza letteraria alla quale sono seguiti altri due
romanzi, sempre ambientati nell’universo sanitario. Lo stesso Venturino, in una
recente intervista, ha puntualizzato che i suoi non sono, come si potrebbe equivocare,
romanzi sulla malasanità, ma descrivono vizi, difetti ed errori che
costituiscono rischi che vanno affrontati quotidianamente da chi svolge quel
mestiere in prima linea. Sempre Venturino, nella postfazione al romanzo,
afferma:
Vorrei solo che rimanesse addosso, a chi ha avuto la pazienza di leggere questo libro fino in fondo, un odore particolare delle cose umane. Un odore che viene fuori dalle zone di confine fra la vita e la morte, ove i silenzi della vita e i rumori della morte assumono fattezze di giganti deformi. Un odore forse fastidioso che, come spesso capita per gli odori, siamo tentati di cancellare dalla nostra vita di tutti i giorni.
Senza alcun dubbio, un odore
difficile da cancellare.
Stefano Crivelli
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