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L'ultimo Fabio Geda: tra romanzo di formazione e romanzo familiare

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L'estate alla fine del secolo
di Fabio Geda
Dalai Editore, 2011


€ 17,50
pp. 285

 

Più romanzi in un romanzo. Più vite, anche, e più flashback per i due io-narranti. Opera di formazione ed epopea familiare al tempo stesso, L’estate alla fine del secolo è un doppio tuffo nel passato. Innanzitutto, per Zeno Montelusa, che ripercorre quell’estate di fine Novecento in cui ha abbandonato il nido siciliano di Capo Galilea, dove viveva con i nonni paterni e con i genitori amatissimi, alla volta di una Genova sconosciuta ma unica speranza per salvare il padre gravemente leucemico. E sconosciuta non è solo la città, ma anche il nonno materno, Simone Coifmann, di cui Zeno non ha mai sentito parlare:
«Scoprire di avere un nonno di cui nessuno ti ha parlato, la cui esistenza ti è sempre stata nascosta, un nonno che non si è mai fatto vivo con te (o perlomeno è quello che sai), un nonno che credevi morto e invece abita una casa, si nutre, parla con la gente, ascolta la radio, è come affacciarsi alla porta del balcone e scoprire che il balcone è crollato, che sotto non c’è più il rassicurante cortile con le magnolie, l’altalena, la piscina di plastica, ma una voragine; il familiare diventa estraneo, il quotidiano illeggibile. C’è solo questo o c’è altro? Quante cose non so? È un terreno scivoloso, il dubbio. E noi stavamo pericolosamente slittando lungo le sue pendici».
Mentre la madre assiste il padre in ospedale, a Zeno non resta che una convivenza obbligata col nonno, in una casa a pochi chilometri dalla città, ma che sembra fuori dal mondo, dato che i cellulari non trovano rete, né ci sono mezzi di trasporto per arrivare in ospedale. Un’estate da trascorrere senza gli amici di sempre, con la compagnia degli inseparabili fumetti e della riflessione, particolarmente spiccata nel piccolo Zeno. Dividere i pranzi e le cene non porta immediatamente alla comunicazione col nonno, che spesso si ritira in un silenzio impenetrabile:
«La voce era diventata ruvida, aveva scartavetrato tutto il bene, il possibile che era germinato in quel dialogo. […] mi sentivo sottovuoto».
A Zeno non resta che rifugiarsi prima nella rilettura e nel disegno dei fumetti –brillante occupazione da adulto – e poi nei giochi con gli altri bambini del posto. Poco sembra capire di nonno Simone, che è schivo e ombroso, per quanto non faccia mancare niente al nipote. Ma come rompere la cortina di diffidenza reciproca? E per quali ragioni Zeno non ha mai saputo di avere un nonno a Genova?


Per rispondere alle domande dei personaggi – e dei lettori –, Fabio Geda costruisce una struttura d’incastri analettici, in cui è lo stesso Simone Coifmann a prendere la parola, su un quaderno in cui ripercorre la propria vita, «per quanto è concesso ricordare o ricostruire o immaginare: dove la memoria illumina». In questa dichiarata contaminazione memoriale e finzionale, Simone, classe ’38, riprende la sua vita dai primi ricordi: le persecuzioni razziali perché ebreo, la vita in fuga con la famiglia e, in particolare, il suo affetto estremo per il fratello Gabriele. Ma ripercorre anche le fatiche per affermarsi nel lavoro, tra problemi economici e tentativi di trovare cosa fare del proprio talento nel dopoguerra, ogni volta sconvolto del suo stesso stare al mondo. E poi l’amore, la passione, la nascita della figlia, gli strappi e i riavvicinamenti,… fino alla vecchiaia in questa frazioncina genovese isolata.

Dunque, se per Zeno «la vita è celebrazione, a dodici anni», per il vecchio Simone l’arrivo del nipote porta luce su un presente barcamenante, rassicurato dalla ripetizione e dall’assenza di eventi. Accostamento contrastivo, è vero, ma oltre la distanza (di età, di filosofia di vita, di prospettive) tra Zeno e Simone c’è il campo comune delle emozioni, e la difficoltà a manifestare le proprie debolezze. Eccone un esempio:
«Non sono mai stato bravo nei saluti. Ho la tendenza a restare troppo sulla soglia, a cincischiare per paura di non avere detto tutto, a reiterare l’addio, poi a ripassare la scena, i gesti, le parole e a rosolare nella vergogna di essere stato emotivo».
Formazione per il ragazzino ma anche, oserei dire, formazione per il nonno, che si riapre agli affetti. Ma non si creda che il romanzo sia una raccolta di buonismo alla Heidi: nelle pagine di Geda si trova tutto il mondo valoriale nelle sue sfaccettature, e si sperimenta il piacere tutto contemporaneo di farsi raccontare non una, ma due storie. E due storie che si lanciano nel passato, senza opacità da istantanee sbiadite, ma con una vitalità narrativa che tiene per quasi trecento pagine. È l’“homo narrator” che trova nelle pagine qui proposte la piacevolezza del farsi trasportare altrove. E, forse, non manca un po’ di speranza nel dimostrare che, a conti fatti, la vita ha portato alla realizzazione di sé, almeno per un attimo. Almeno. 

Gloria M. Ghioni