di Michele Fianco
Edizioni Polìmata, Roma 2011
C’è una forma
canonica di scrivere recensioni di romanzi; una forma che trae alimento
dall’accademia e dalla convenzione, dalla buona educazione letteraria e dalla
professionalità. È una forma che ha elementi costitutivi ed elementi
sussidiari. A un di presso la si potrebbe descrivere così: rapido excursus biografico-letterario
sull’autore (a volte basta rimescolare le parole della nota biografica della
quarta di copertine); illustrazione sintetica della fabula e dei temi e degli ambienti che la riguardano; qualche
sparuto e paradigmatico rilievo stilistico-compositivo; giudizio implicito
fornito dalle connotazioni lessicali e dal tono che il recensore ha scelto
d’usare. Elementi sussidiari: la griglia storico-critica entro cui imbrigliare
l’autore e l’opera (tra Gadda e
Arbasino… tra Carver e Philippe Roth… tra Houellebecq e Modiano… tra post-moderno
e visionarietà borgesiana… e via sbarrando e precisando), griglia che,
molto spesso, più che a inquadrare l’autore o lo stile, serve al recensore a
contare e far sapere quanti libri ha letto; il giudizio esplicito (raro, per la
verità).
Seguendo queste semplici regole, il recensore mette (o s’illude di mettere o fa credere ai suoi lettori più fiduciosi o sprovveduti) il cappello sul romanzo steso sul suo tavolo da chirurgo. E seguendo queste semplici regole, raggiunge anche un altro risultato: tenere ben distante il proprio io (d’uomo e di letterato) dal romanzo in questione. Un io che tutt’al più si esprime per ammiccamenti, sorrisini ironici, sdegni, lezioni morali o linguistico-compositive.
Seguendo queste semplici regole, il recensore mette (o s’illude di mettere o fa credere ai suoi lettori più fiduciosi o sprovveduti) il cappello sul romanzo steso sul suo tavolo da chirurgo. E seguendo queste semplici regole, raggiunge anche un altro risultato: tenere ben distante il proprio io (d’uomo e di letterato) dal romanzo in questione. Un io che tutt’al più si esprime per ammiccamenti, sorrisini ironici, sdegni, lezioni morali o linguistico-compositive.
Un così lungo
(e, mi rendo conto, spocchioso) preambolo ha uno scopo ben preciso: fare da
subito un gran complimento a Michele Fianco e al suo Swing. Su questo romanzo non si può (o io non sono in grado di)
mettere il cappello. È un romanzo che deliberatamente e con sicura ed esplicita
consapevolezza fa a meno delle categorie abituali attraverso cui l’autore cerca
di entrare in contatto con il lettore: non gli fornisce punti d’appoggio stabili
entro cui far fluire la sua lettura (trama, personaggi, ambienti, ecc). “Bello,
sì. «Ma non so che dire». Mi mancava la presa. Sì, quella maniglia che in
ambito culturale e letterario esiste sempre”, scrive l’autore (o il personaggio
o, se il personaggio, quale personaggio?) commentando una poesia di un
personaggio (o dell’autore o della voce narrante?). Sicché per lunghi tratti –
specie all’inizio della lettura – si ha una sensazione fortemente straniante:
pare di leggere un testo in una lingua pochissimo conosciuta di cui si coglie
di tanto in tanto il significato di una parola, addirittura di una frase, ma il
senso, o più modestamente, il significato complessivo continua a sfuggire. Però
si va avanti, si deve andare avanti (non per obblighi professionali o
accademici) perché ci si deve dare ragione di quell’effetto straniante, si deve
cercare di capire perché quel poco che si coglie sembra poter giustificare di
per sé lo sforzo della lettura.
Poi man mano, usando pazienza, si arriva a cogliere non un significato, bensì un significante, un ritmo, un basso continuo, lo Swing, appunto, che fa da contenitore a quei bagliori e che, a sua volta, rimanda ad un significato o senso non immediatamente connesso con il significato delle parole o delle frasi che lo compongono. E qui il lettore può contentarsi d’averlo sentito, d’averlo percepito, mentre l’intestardito recensore deve sforzarsi di tradurlo in parole. Rischiando, come uomo e come letterato, la più sonora delle cantonate. A me sembra che quel ritmo, quel “dondolio” instancabile e inarrestabile voglia rimandare ad una condizione esistenziale contemporanea segnata dall’instabilità, dall’impossibilità di fornire e fornirsi punti di riferimento stabili, dall’incontro sempre più sfocato tra l’individuo e il mondo, esplosi entrambi in frammenti irrelati. Le categorie ontologiche classiche – spazio, tempo, socialità – non garantiscono la realtà dell’esperienza, si sovrappongono, si mescolano, si rendono irriconoscibili. È quella che si suole definire la condizione post-moderna, liquida (tanto per usare parole trite e usurate). Al punto che tutto il romanzo potrebbe anche essere definito come una parodia di quella condizione, dalla quale però non si riesce ad uscire.
Rimangono i bagliori, circondati dall’è stato, dal sarebbe potuto essere, dall’è, dal sarà, qui o nel passato, o lì, nella memoria o nella fantasia, in questo mondo o in un altro, dentro il soggetto o dentro agli altri personaggi che sono al tempo stesso dentro e fuori da soggetto. Le stesse categorie di reale e virtuale (oltre ad essere linguisticamente inutilizzabili per estenuazione d’uso) finiscono con l’essere inservibili tanto sono compenetrate l’una nell’altra. E quei bagliori parlano di sentimenti, di ironia, di tenerezza, di dolore, di vicende esistenziali comuni, sofferte o più leggere, tutte tratteggiate a matita, appena appena in rilievo rispetto al ritmo di cui s’è detto, con finezza, garbo e capacità di restituire in poche linee una situazione biografica o sociale o psicologica (in questo senso si raccomandano le pagine dedicate all’ex-pugile o alla donna che sembra il personaggio abbia iniziato, molto indolentemente, a corteggiare).
Così si comincia a sentire che quelle parole, quelle frasi a stento riconosciute parlano anche di te, del tuo mondo e che possano aiutare a decifrarlo e ad adattarcisi. Ed anche che a quei sentimenti, a quella ironia, a quegli stati d’animo si può dare fiducia, si può tentare di raggrumarli in un che di solido, da opporre alla liquidità della condizione contemporanea, senza però disconoscerla e senza imporne autoritariamente il superamento in una direzione o in un'altra, sulla scorta di concettualizzazioni già ampiamente “destrutturate”. Il romanzo di Michele Fianco è tutto dentro all’attuale dibattito tra i patiti (o rassegnati) del Post-modernismo e gli inquieti sostenitori del Nuovo realismo (per semplificare: Alberto Abruzzese vs Maurizio Ferraris – per maggiori informazioni si vedano gli ultimi numeri della rivista Alfabeta2).
Concludo con una lunga citazione che può dare un’idea del libro e che è una specie di auto-recensione fornita dall’autore, secondo il più ossequente e parodico spirito post-moderno. “Gli applausi di quella sera, di quei pochi minuti grandiosi. E perfino i più scettici non poterono che assecondare quel flusso. Sembrava d’incanto che anche chi avesse potuto dire «sì, bello, ma non si capisce tanto, non è per tutti», si sarebbe trovato nel bel mezzo di una folgorazione, sintetica e netta, ma che osservata con molta attenzione, al rallentatore, avrebbe suonato in questo modo, più o meno:
Poi man mano, usando pazienza, si arriva a cogliere non un significato, bensì un significante, un ritmo, un basso continuo, lo Swing, appunto, che fa da contenitore a quei bagliori e che, a sua volta, rimanda ad un significato o senso non immediatamente connesso con il significato delle parole o delle frasi che lo compongono. E qui il lettore può contentarsi d’averlo sentito, d’averlo percepito, mentre l’intestardito recensore deve sforzarsi di tradurlo in parole. Rischiando, come uomo e come letterato, la più sonora delle cantonate. A me sembra che quel ritmo, quel “dondolio” instancabile e inarrestabile voglia rimandare ad una condizione esistenziale contemporanea segnata dall’instabilità, dall’impossibilità di fornire e fornirsi punti di riferimento stabili, dall’incontro sempre più sfocato tra l’individuo e il mondo, esplosi entrambi in frammenti irrelati. Le categorie ontologiche classiche – spazio, tempo, socialità – non garantiscono la realtà dell’esperienza, si sovrappongono, si mescolano, si rendono irriconoscibili. È quella che si suole definire la condizione post-moderna, liquida (tanto per usare parole trite e usurate). Al punto che tutto il romanzo potrebbe anche essere definito come una parodia di quella condizione, dalla quale però non si riesce ad uscire.
Rimangono i bagliori, circondati dall’è stato, dal sarebbe potuto essere, dall’è, dal sarà, qui o nel passato, o lì, nella memoria o nella fantasia, in questo mondo o in un altro, dentro il soggetto o dentro agli altri personaggi che sono al tempo stesso dentro e fuori da soggetto. Le stesse categorie di reale e virtuale (oltre ad essere linguisticamente inutilizzabili per estenuazione d’uso) finiscono con l’essere inservibili tanto sono compenetrate l’una nell’altra. E quei bagliori parlano di sentimenti, di ironia, di tenerezza, di dolore, di vicende esistenziali comuni, sofferte o più leggere, tutte tratteggiate a matita, appena appena in rilievo rispetto al ritmo di cui s’è detto, con finezza, garbo e capacità di restituire in poche linee una situazione biografica o sociale o psicologica (in questo senso si raccomandano le pagine dedicate all’ex-pugile o alla donna che sembra il personaggio abbia iniziato, molto indolentemente, a corteggiare).
Così si comincia a sentire che quelle parole, quelle frasi a stento riconosciute parlano anche di te, del tuo mondo e che possano aiutare a decifrarlo e ad adattarcisi. Ed anche che a quei sentimenti, a quella ironia, a quegli stati d’animo si può dare fiducia, si può tentare di raggrumarli in un che di solido, da opporre alla liquidità della condizione contemporanea, senza però disconoscerla e senza imporne autoritariamente il superamento in una direzione o in un'altra, sulla scorta di concettualizzazioni già ampiamente “destrutturate”. Il romanzo di Michele Fianco è tutto dentro all’attuale dibattito tra i patiti (o rassegnati) del Post-modernismo e gli inquieti sostenitori del Nuovo realismo (per semplificare: Alberto Abruzzese vs Maurizio Ferraris – per maggiori informazioni si vedano gli ultimi numeri della rivista Alfabeta2).
Concludo con una lunga citazione che può dare un’idea del libro e che è una specie di auto-recensione fornita dall’autore, secondo il più ossequente e parodico spirito post-moderno. “Gli applausi di quella sera, di quei pochi minuti grandiosi. E perfino i più scettici non poterono che assecondare quel flusso. Sembrava d’incanto che anche chi avesse potuto dire «sì, bello, ma non si capisce tanto, non è per tutti», si sarebbe trovato nel bel mezzo di una folgorazione, sintetica e netta, ma che osservata con molta attenzione, al rallentatore, avrebbe suonato in questo modo, più o meno:
Che vuoi che ti dica? C’è tutto ed è tutto vero questo infinito unicellulare e batterico, questo angolo di casa fatto di mondi che non ti dico, tanto che le idee, l’intero know how e le aziende passate e future, quasi quasi le riassumo e le vendo a terzi, in un contratto definitivo, che non ti puoi fare nemmeno un’idea. Almeno, a uso commerciale magari, le capirebbero, i terzi, sarebbe attenti. E nudi e non ipocriti. Mi dispiace per te, ma se ti difendi troppo, se ci pensi troppo, io mi riprendo, mi riscatto e me ne vado. Così. E puoi, se vuoi, pensare pure ai “Grandi Classici”, che i grandi classici avevano tempo, mica questa nostra fretta che ti corre. E pensa pure quello che ti pare di questo brano, di questo sguardo, di questa biografia surreale. Che tanto è lo spirito di questa mia musica, di queste cose, di una vita…
Paolo Mantioni
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