Dante a Palermo (7)
(Verosimile al 50%)
19. Sarebbe stato comodo se, rientrati nel cunicolo, Dante e io avessimo potuto raggiungere casa con la stessa facilità in cui l’avevamo lasciata. Ma non fu così. Rientrati nell’orifizio, scivolammo al suo interno per parecchio tempo, tanto che il Sommo si addormentò. Poi, finimmo in un campo di lenticchie di una piccola isola del Mediterraneo: Linosa. Perché proprio lì? Rimandammo la questione a data da destinarsi. Adesso, l’obiettivo era ritornare a Palermo. Con il Poeta ci sedemmo a un bar del piccolo centro cittadino, e disegnammo di getto questo schema, per riassumere la situazione:
Φαίνεταί μοι κῆνος ἴσος θέοισιν
ἔμμεν᾽ ὤνηρ, ὄττις ἐνάντιός τοι
ἰσδάνει καὶ πλάσιον ἆδυ φωνεί-
σας ὐπακούει[1]…
ἔμμεν᾽ ὤνηρ, ὄττις ἐνάντιός τοι
ἰσδάνει καὶ πλάσιον ἆδυ φωνεί-
σας ὐπακούει[1]…
Sulla prima pagina di un quotidiano, poggiato su un tavolino del locale, notammo la foto di una crociera arenata accanto le coste della Toscana. Leggendo la data, capimmo che eravamo stati via dal mondo per circa tre settimane, o forse di più. Mi ero perso la farsa dell’inizio di un nuovo anno e l’anniversario della morte del caro Mohamed Bouazizi[2], Antigone della contemporaneità. Tuttavia, andammo al porto per imbarcarci, pensando alle stranezze temporali, e ritornammo in Sicilia. Dopo una notte passata con la mia mano sulla fronte del Sommo che, colto dalla nausea, sputacchiava dentro un bicchiere di plastica (centrando unicamente le mie scarpe), arrivammo a Porto Empedocle. Poi, salimmo su un autobus in direzione Palermo. Facendo i conti, impiegammo meno tempo per recarci nel mondo della cultura, calandoci da un orifizio, che per compiere duecento chilometri con mezzi di trasporto tradizionali. Perché? Da alcuni giorni una protesta, avanzata da un movimento detto dei “Forconi”, aveva immobilizzato l’isola: distributori a secco, pochissime automobili per le strade, scaffali dei supermercati quasi vuoti. Isteria sociale, pura isteria. Dante disse che se avessero tolto alla gente anche i siti porno, i social network, le promozioni telefoniche dei cellulari (chiamate e messaggi) e le aspirine, sarebbe scoppiata una guerra. Una cosa suonava strana in questa vicenda: nelle settimane successive, i disagi provocati dalla protesta toccarono solamente i poveracci come il Poeta e me, che non riuscivano a trovare frutta e verdura davvero fresca al mercato di Ballarò, o la benzina per il “Sì” ai distributori. I veri destinatari della protesta, infatti, mangiavano al ristorante e guidavano le berline[3], come sempre. Il Sommo aggiunse ai miei dubbi: «Secondo me, la crisi è una scappatoia, ma non capisco che tipo di scappatoia. Sì, secondo me qualcuno sta tentando di convincerci che la crisi sia necessaria. Quando qualcosa appare necessario, ci si rassegna. E da rassegnati siamo molto deboli. Ma rassegnandoci, facciamo il gioco di chi tenta di convincerci che la crisi sia necessaria e crediamo in tutto quello che ci dicono. Se facciamo il loro gioco, allora ci lasciamo manovrare. E se ci lasciamo manovrare…». E se ci lasciamo manovrare? Lo incitai, ma non rispondeva. Un’altra domanda si trovava nella mia mente priva di risposta: ma Fulippu Ogghiu Friutu che fine aveva fatto?
20. «Non capirete mai quello che mi è accaduto. Ero vecchio, un vecchio come tanti, abbandonato in una casa di riposo, insieme ad altri vecchi. Mi annoiavo da morire e pensavo ai ricordi della mia giovinezza, una giovinezza che non era la mia, che non avevo affatto vissuto. Me ne stavo seduto su una sedia a dondolo ogni giorno, un po’ guardando la tv, un po’ parlando da solo davanti un tè, un po’ piangendo. Mi aiutavano a camminare, mi lavavano, mi imboccavano, asciugavano la bava che colava dal mento. Una donna, anche lei anziana, che dormiva nella stanza accanto la mia, mi faceva la corte. Ogni mattina, prima di svegliarmi, inseriva un mazzolino di bellissimi fiorellini freschi all’interno di un bicchiere di vetro, il quale conteneva la mia dentiera. Quando ella ricordava chi fosse stata da ragazza, mi raccontava la sua vita. Quando non ricordava nulla, e questo accadeva spesso, se ne stava muta a fissarmi e a sorridere. Un pomeriggio, mentre osservavo uno spettacolo di marionette, avvertii un forte dolore alle tempie. Accanto a me tutto scomparve. Mi ritrovai in un teatro, completamente vuoto. Entrò dalle quinte un uomo, vestito da hostess. Sì, da hostess, con il rossetto e la divisa. Disse: “Buonasera, caro. Io sono il tuo sentimento. Proprio così: il tuo sentimento. Perché questa faccia? Mi sembri sorpreso. Sono qui per aiutarti. Ti devo aiutare a esprimere un desiderio. Non sapevi che… Ma certo! Non potevi saperlo, altrimenti perché sarei venuto fin qui? Ascoltami, ascoltami e ti spiegherò. Siediti qui. Ebbene… oh, scusami: avresti un fazzoletto? Mi sono sporcato le scarpe di fango per raggiungere questo postaccio”. Mi sorprese la sua richiesta. Cioè, mettetevi nei miei panni: prima mi trovavo in un ospizio. Poi, senza capir nulla, mi risvegliai in un teatro con un uomo vestito da hostess, il quale mi invita a sedermi in una poltrona che si trasforma in vasca da bagno con idromassaggio, il quale mi chiede un fazzoletto per pulire le sue scarpe, un paio di mocassini leopardati. C’è da preoccuparsi, o no? Comunque, gli diedi il fazzoletto e lui continuò: “Tutti voi, figli della natura, avete un desiderio da esprimere. E dovete farlo con il sentimento. Il sentimento è il vostro unico strumento, l’unico in grado di soddisfarvi. Ma non conoscendo il sentimento, restate impotenti a contemplare il desiderio come un cane ulula la luna. Io sono qui per aiutarti adesso. Dimmi qual è il tuo desiderio”. Ci pensai un po’ su, e poi dissi: “Mi piacerebbe diventare un taverniere. Fin da bambino ho desiderato esserlo. Ma non un taverniere qualunque, no. Vorrei essere il proprietario di una taverna frequentata dai filosofi dell’antica Grecia”. Lo so, miei cari amici, avrei potuto chiedere denaro, tanto denaro. Ma cosa ne avrei fatto? Avrei potuto darlo a voi, certo!. E anche a tutti quelli come voi. Ma sono sicuro: a chiunque lo avrei dato, si sarebbe stancato, come io sono stanco, stanco del mondo, un mondo fondato sulla sopravvivenza. No, non avrei permesso che voi, miei unici amici, sareste potuti diventare come me: terra arida. Ho dedicato i miei giorni al portafoglio e a ciò che ho in mezzo le gambe. Non mi pento di averlo fatto: è stato bello bramare lusso e collezionare donne, è stato bello sentire l’invidia della gente nei miei confronti. Ma questo non basta: mi manca qualcosa. E soprattutto, sono sdegnato, sdegnato dalla falsità del piacere e dal vuoto dentro me stesso. Sapete che sapore ha lo sdegno, o come suona il vuoto? È solitudine: è la stretta di mano di una statua di marmo[4]. Ora vorrei riempirmi di belle parole, le parole dei filosofi. Perché soltanto le belle parole non marciscono. Chiesi alla hostess, dunque, di essere un taverniere, di avere accanto gente in grado di ricamare discorsi sublimi. E di avere accanto anche voi, miei unici compagni. “Se è questo quello che desideri, caro Fulippu”, disse la hostess, “se è la felicità tua insieme alla felicità di chi ami ciò che desideri, tutto sarà avverato: perché lo hai chiesto con il sentimento, perché ti sei reso servo di chi ami”. Mi chiuse gli occhi, li riaprii e mi ritrovai nella taverna che ho sempre sognato».
21. «Il primo ad arrivare fu Talete. Osservando i dipinti che appositamente avevo scelto per adornare le pareti della taverna, inciampò su una piega formatasi per caso sul tappeto. Suscitò una risatina molto fastidiosa alla cameriera, la quale rimproverai severamente. Lo accolsi in sala con un inchino e lo pregai di sedersi a capo tavola, perché quello era il posto che gli avevo riservato. Dissi che poteva bere tutta l’acqua che desiderava, e che sarebbero arrivati gli altri ospiti fra non molto. Difatti, con la coda dell’occhio, notai Anassimandro e Anassimene di fronte la porta di ingresso. Si chiedevano, l’un l’altro, quale fosse il principio di tutto e se la taverna che avevano raggiunto si trovasse all’indirizzo da me indicato nella lettera di invito. Mi presentai loro e li feci accomodare. Talete, Anassimandro e Anassimente si salutarono e iniziarono immediatamente a dialogare. Pochi minuti dopo, ci raggiunsero Pitagora e i suoi amici, i quali reggevano una cesta piena di peperoncino in omaggio alla taverna. Li ringraziai con una stretta di mano e li invitai a sedersi e a consegnarmi le calcolatrici, le matite e le squadrette. In quel momento squillò il telefono. Era Eraclito che mi chiedeva il favore di sistemarlo a un tavolo appartato, lontano dagli altri colleghi, magari vicino le cucine. Gli spiegai che sarebbe stato per me piacevole vederlo seduto insieme agli altri, e lui, messo alle strette, accettò la richiesta. Il filosofo venne qualche minuto dopo, seguito da Parmenide che volle un po’ un di fieno per le cavalle posteggiate in doppia fila, e Zenone che, molto simpaticamente, mi salutò assegnandomi un problema logico difficilissimo, promettendomi di svelarmi la soluzione alla fine della serata. Stavo per iniziare a ragionarci, quando entrarono al ristorante Empedocle, Anassagora e Democrito. Empedocle declamò una delle sue bellissime poesie, mentre Anassagora e Democrito lo accompagnavano rispettivamente alla chitarra e al basso. La sala piombò in un angosciante silenzio quando entrarono, l’uno a braccetto dell’altro, Socrate, Platone e Aristotele, i quali, dopo un attimo di esitazione dovuta alla timidezza, si diressero verso i filosofi seduti a tavola salutandoli con profondo rispetto. Immediatamente ripartì la musica. L’unica espressione sulla bocca di tutti era il sorriso. Mi sentivo come uno che inciampa sulle scale e si ritrova, dopo qualche tentativo di riprendere l’equilibrio, palpitante sui suoi piedi, contento di non essersi fatto un graffio. Chiesi che le brocche venissero riempite ogni volta che il livello del vino fosse inferiore a quello dell’aria. A un certo punto, Socrate fu invitato a raccontare un mito. Il filosofo accettò. Quando ebbe terminato, tutti applaudirono. Udimmo la voce di Alcibiade provenire da fuori[5]. Feci cenno alla cameriera di farlo entrare. Il ragazzo era bellissimo, nonostante fosse ubriaco fradicio. Salutò tutti i presenti e si avvicinò a Socrate, il quale appariva imbarazzato. Chiese del vino, e dopo aver bevuto pregò i filosofi di ascoltarlo. Non ricordo esattamente cosa disse, perché anche io ero ubriaco, ma concluse il discorso con queste parole: “Socrate, io ti amo!”. Socrate si alzò e lo guardò negli occhi. Poi, mi venne incontro e con la mano carezzò la mia guancia. Disse: «Questo è il fin di chi fa mal![6]». Mi baciò, come se volesse togliermi il respiro. Ma arrivato a questo punto, il sogno finì». Ognuno ha i suoi orifizi viscidi, ognuno ha qualcosa da raccontare. Il racconto di Fulippu ci commosse fino alle lacrime.
Dario Orphée
[1] Saffo.
[2] Per chi non lo sapesse, Mohamed Bouazizi era un fruttivendolo tunisino. Nel dicembre del 2010, durante il lavoro, gli fu confiscata la merce. Per protesta, il ragazzo andò di fronte il palazzo del governatore, si cosparse di benzina e si diede fuoco. Morì il 4 gennaio del 2011, a causa delle ustioni. Poco dopo, scoppiò la “Primavera Araba”.
[3] Questa contrapposizione mi fece pensare a un’immagine: democrazia e capitalismo andranno spesso a letto, trastullandosi l’un l’altra, praticando tutto il kamasutra, anche le parti più oscene, ma non potranno mai sposarsi. E come possono? Il capitalismo, sistema difeso da molti (temo che mai fallirà), è lo stupratore della democrazia e si fonda su questo principio: “X fotte Y, che fotte Z e così via”. La democrazia, invece, vittima del capitalismo, si fonda su questo principio: “X è servo di Y, che è servo di Z e così via”. Ma perché le donne e gli uomini, rispetto alla democrazia, sono maggiormente sedotti dal capitalismo? Facile: in democrazia non si fotte, si lavora. La mancanza di lavoro o il lavoro sotto sfruttamento, nel nostro periodo storico, ci dimostra che la democrazia è molto ridotta.
[4] Cfr. “Don Giovanni”, Mozart.
[5] Questa parte è tratta dal “Simposio” di Platone. Ovviamente, la conclusione è del tutto diversa.
[6] “Don Giovanni”, Mozart. Libretto di Lorenzo da Ponte. Secondo atto, scena diciottesima.